Gaspare Cucinella, ritratto di un attore

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DI GREGORIO NAPOLI

Ma Buster Keaton corre ancora? Certamente, è Gaspare Cucinella

Era il 1964 l’anno di Belle de jour. Il professore Luigi Chiarini si pavoneggiava al fianco di Luis Buñuel prima di consegnargli il Leone d’oro. Ma la Sala Grande, nel Palazzo del cinema, scattò in piedi soltanto quando sul proscenio apparve Buster Keaton. Otto minuti di applauso. Otto minuti. Gli spettatori e i giornalisti riconoscevano il mimo della propria infanzia. La Mostra di Venezia viveva il suo momento esaltante; i 1320 secondi di Film avevano suggellato il giubileo al “comico con la faccia di pietra” gratificando la cultura. Infatti, nel “breve” di Alan Schneider, ispirato da Samuel Beckett, la riflessione sulla Morte si salda allo sguardo sbigottito della macchina da presa sulle tre pareti disadorne, nello spazio angusto dove il Vecchio si prepara a varcare il Soglio Estremo. Il grande operatore Boris Kaufman, fratello minore di Dziga Vertov, tempra l’emulsione sul bianco-e-nero, interpretando perfettamente il ruolo assegnato da Schneider alla macchina da presa, ossia quello dell’ospite indesiderato, dell’intruso, del kinopravda che carpisce la realtà rinunciando a capirla, pago intanto di chiuderla dentro la prigione in celluloide. Carpire per poi capire. Giunto al crepuscolo, il Vecchio tenta di sottrarsi alla visione altrui, gioca ad annullarsi, distrugge l’iconografia del suo passato, ma alla fine si ritrova davanti a se stesso. “Nella fuga da ogni percezione estranea – spiegò l’eccezionale sceneggiatore Beckett, assistendo alle riprese – il tentativo di non essere si vanifica nella percezione ineluttabile di sé.” Non è un caso che, nel sobrio press book del suo Gaspare Cucinella, ritratto di un attore popolare, Nosrat Panahi Nejad accosti l’artista di Cinisi al “volto che non sorride”, istoriandolo con l’epiteto “Keaton siciliano”. Cucinella incede nel litorale che vediamo anche in Franco Scaldati-Il pozzo del teatro, si ferma a sogguardare l’uomo dormiente sulla sdraio, aggira la casamatta semidirupata, passa dal piano totale al medio, al campo ravvicinato, al dettaglio. E irride. Volge un cachinno verso la “camera”, va in contrappunto – punctum contra punctum, due accordi di opposta tonalità, confluenti però in una cadenzata sintonia – e suo alter è Franco. Sembra naturale che sgorghi un diario di lavorazione. Eccolo, inevitabile. “Mi disse, questi sono i movimenti che devi fare, devi spostarti da qui a qui, il tuo gesto sarà modulato in cotal modo…” Fra le molteplici citazioni possibili emerge la Scena II, Atto III dell’Amleto. In fondo, il rapporto tra Scaldati, regista demiurgo, e Cucinella, aedo del coturno, non è dissimile da quello fra il principe di Danimarca e three of thePlayers. “Dite il discorso, vi prego, come io ve l’ho recitato, quasi vi danzasse sulla lingua… non siate troppo mansueti, accordate l’azione alla parola, la parola all’azione; riformate la battuta; se è lunga abbreviatela, se è corta allungatela…E coloro che fanno le parti dei buffoni non dican più di quanto è stato scritto per loro…Perché ci sono quelli che ridono essi stessi per indurre una certa quantità di stupidi spettatoria rider pure.”

Sull’intreccio di codesta cultura, Gaspare Cucinella vive oltre la convenzione teatrale. Per lui, come per Franco il teatro è pulsanda tellus, tavola da calpestare nel flusso ritmante della vita, nella febbre di sopravvivenza della plebe, nella memoria del vernacolo, nell’eco culturale di arcaici riti e furibondi sabba, coreografati sull’ara delle rivendicazioni – perché no? – sociali. Durante le riprese, sotto l’occhio di Nosrat, il Nostro ha evocato sacrifici, pure economici, affrontati per non lasciare Palermo, per non abbandonare il perimetro autoctono. Egli esercita la sua milizia nobilissima aggirandosi nel proprio appartamento, fra il tinello e la stanza per dormire. Il corridoio è “Il praticabile”; ed il lamento per l’occasione perduta, la malinconia per non aver potuto fissare sulla pellicola il documento per una straordinaria esperienza scenica (ma altri avrebbe dovuto farlo, ed è prezioso,ora, il manufatto raccolto e montato da Panahi Nejad) si stemperano nella vocazione “a continuare” pure entro le mura domestiche, sotto lo sguardo di una Mamma\Moglie o Sorella\Consorte per nulla atterrita dalla cavernosità stentorea del Gaspare\Buster Keaton. Il rammarico per “un film mai nato”è lenito, del resto, dalla consapevolezza che il pavimento casalingo riesce a serbare intatta la nobiltà di una recita avvertita come preghiera laica, posto che “il teatro è fatto di valori morali, da custodire come una reliquia.” E peggio per chi non se ne accorto in tempo.

 

GASPARE CUCINELLA

di GUIDO VALDINI

Partirei dal finale del video di Nosrat, che è un bel pezzo di calore intimista, finale tutto giocato lentamente sulla figura di spalle del protagonista, seduto sul letto della sua camera e visto dall’uscio della porta, quasi che la macchina da presa spiasse dal buco della serratura lo sfogo pietoso del segreto di un uomo. Una inquadratura allusiva per chiudere quest’opera asciutta che poco o nulla concede alle retoriche biografiche. Qui, in questo finale, il protagonista Gaspare Cucinella piange per un glorioso passato svanito che poteva essere diverso e più esaltante. Poi lascia spazio all’assenza: nomina i suoi personaggi che ha interpretato a teatro come se volesse chiamarli all’appello, come se volesse ritornare con loro, come se li volesse lì, con lui, questi fantasmi, almeno per un’altra volta, un’ultima volta, come a volere richiamare un teatro che non c’è più. Ma nessuno risponde. Gaspare Cucinella è solo, vecchio e affranto, ad agitare l’eco di un palcoscenico vuoto, gremito dei fantasmi della sua memoria.

È una conclusione malinconica, forse anche tragicomica, che, se riflette l’amarezza nostalgica di un teatro finito, di un’avventura umana e artistica irripetibile, la ridisegna attraverso la maschera di un attore – Gasapare Cucinella appunto – che è stato un caso assolutamente eccezionale nel teatro palermitano del dopoguerra. Una maschera popolare con la fissità del clown e la mobilità del mimo, immediatamente naif, espressione di un’umanità grezza, beona e feroce come lo è la naturalità dei bisogni primari, pronta a scatenare la risata, la baldoria o la pseudo commozione; ma, a guardare meglio, una maschera che non si toglie dalla pelle a spettacolo finito, una maschera che è volto, perchè ha piegato la finzione alla vita stessa. Dunque, una maschera demoniaca, che sembra possedere il demone dell’incanto e della furia degli antichi riti orgiastici romani e mediterranei. Se si guarda con attenzione il volto di Cucinella – ma anche le mani, le braccia, le gambe e tutto il corpo, la sua andatura sgraziata e circospetta ma salda e curiosa – si nota una varietà mimica fatta di smorfie, inarcamento di sopracciglia, giri d’occhi, torsione del collo, etc., che, se pare concorrere a restituire una condizione o un effetto particolare, di meraviglia, di stupore fanciullesco, di rabbia, d’ira, di rivalsa, d’innocenza, di gioia o di dolore, la riempie di un’accensione inusitata, la carica di un surplus di energia, la enfatizza quasi iperrealisticamente, rendendola alla fine incredibile, cioè non-credibile, forse surreale, certo, appunto demoniaca. Il risultato è che quella maschera ci fulmina.

Lo stesso può dirsi per la sua fisicità sorniona nella sua immobilità, il più delle volte quando rimane stupefatto e a bocca aperta o si abbandona ad una specie di ghigno tra il mefistofelico e l’allucinato. Tutte queste variazioni sul tema, l’opera di Nosrat ce le mostra in una sintesi sufficientemente esaustiva.

Qualcuno ha accostato Cucinella a Buster Keaton, come “volto che non sorride”, l’ineffabile maschera di pietra del primo piano finale dello straordinario Film di Alan Schneider, ispirato da Samuel Beckett. Il gelo astratto del grande Keaton come le rughe aride, scavate e inespressive nel volto di sasso di Cucinella. Ma – al di ogni implausibile paragone –, se entrambi hanno in comune il salto nel surreale, Keaton traduce l’impossibilità di cogliere la realtà: è già su un altro mondo, opposto e lontano da quello reale, illogico e stolto, in cui viviamo. Gaspare Cucinella, pur nella sua avversione all’ordine sociale e comportamentale, alla convenzionalità di intelligente banalità, è ben piantato sulla terra: il suo è un raggelamento incendiario della caricatura, dove l’ossimoro sta ad indicare una condizione di vitalità estrema, illusa, delusa, contrastata, di chi guarda il mondo con una lente deformata, e non – come Keaton – di chi il mondo lo ha abbandonato e lo guarda dalla luna senza più capirlo. Forse la maschera di Cucinella ha qualcosa di quella di Franco Franchi, quando l’estremizzazione della caricatura, tutta mediterranea nell’uno come nell’altro, si avvicina all’esplosione della stessa maschera. La maschera si è rotta.

L’avventura artistica di Gaspare Cucinella si è consumata soprattutto tra la prima metà degli anni Settanta e tutti gli anni Ottanta, all’interno dell’esperienza del teatro di Franco Scaldati, autentico mentore di Cucinella, da lui scoperto per caso e immediatamente assurto a campione di quel teatro. Erano anni di grande vitalità del teatro palermitano, anni di creatività e disordine, coacervo di umori e dispersioni. Teatro povero e pazzo, fatto di niente, stracci e fantasia, in sottoscala e scantinati, fra i quali il più durevole fu la Locanda degli Elfi, laboratorio in progress, luogo di vita e di discussioni, di gioco e di teatro, dove chi arrivava ci metteva del suo. In questa temperatura, Scaldati s’inventa un teatro che parte dal quotidiano marginale, il microcosmo degli umili, dei vinti e dei diseredati, a metà tra i resti del mondo contadino e l’emergente sottoproletariato urbano. Ma il “margine” scaldatiano non è rivendicativo né strettamente “politico”, non intende cioé denunciare o gridare ingiustizie e sopraffazioni: mostra, piuttosto, quel che gli altri non sanno e non vedono, s’intrufola nel bassifondi e nei ghetti per esporarne l’anima, per mostrare i rapporti fra quegli esseri usciti da una botola sulfurea, ladri e straccioni, capaci di gesti efferati e di tenerezze insospettabili, esseri di sconfinato candore e di irrefrenabile umorismo nella loro tragedia quotidiana. Li getta sul palcoscenico, luogo della finzione, per tirare fuori “sentimenti ancestrali”, nascosti e immediati, i germi della generosità e della malattia, della lucidità e della follia che vi si annidano. E che fanno di questi personaggi esemplari di una umanità e di una verità più autentica di quella che si agita nel mondo cosiddetto civile. Provenienti dalle nebbie di un mondo antico e che diventano creature ai bagliori della modernità. Personaggi che diventano straordinarie marionette poetiche, ora buffe ora terrifiche, che ci indicano una possibilità diversa di essere nel mondo. Un teatro fra terra e aria, fra naturalismo e iperrealismo, che finisce con lo sciogliersi nel sogno e nell’astrazione. Un teatro in cui è determinante l’uso del frammento e del dialetto, anch’esso arcaico ma reinventato, intriso di echi e alfabeti, nenie e fuochi, arabeschi e spine, che, pur nella ridondante violenza espressiva, rimanda alla favola, all’iperbole, al nonsense. Un teatro per il quale parlare di tradizione e ricerca, repertorio e sperimentazione non ha alcun senso, proprio perché il suo valore rifiuta ogni sistematizzazione. Ma ha senso notare, invece, come – così ci avevano predetto in tempi non sospetti i palermitani del Gruppo 63, Testa, Perriera e Di Marco – nel teatro scaldatiano, sottoproletariato e avanguardia finiscano per collimare.

Lo spettacolo che racchiude al meglio il teatro e la poetica di Franco Scaldati è Il pozzo dei pazzi (aprile 1976, Piccolo Teatro di via Calvi il debutto ufficiale, ma che ebbe in precedenza svariate edizioni laboratoriali alla Locanda degli Elfi), al quale i tanti suoi successivi spettacoli sono in buona parte debitori; spettacolo divenuto nel tempo una sorta di mito, capolavoro dell’intero teatro palermitano e siciliano dal dopoguerra. E col quale si rivela anche Gaspare Cucinella, che appare subito come l’interprete ideale per questo teatro. E dunque, tutto quanto sopra detto per Scaldati vale anzitutto per Cucinella. Non starò a ricordare quel che accadde sul palcoscenico del Pozzo: basterà solo accennare a come, nella disarticolata allucinazione dell’intera pièce, fatta di frammenti di storie disperate, i due protagonisti (Cucinella-Aspano, e Scaldati-Benedetto) si muovevano in una sorta di danza leggera ubriaca fra cicche di sigarette e una gallina contesa da entrambi, lungo un dialogo incalzante fatto di naturalità amorale, infarcito di irresistibili turpiloqui e di temperatura onirica. Tre elementi che solo miracolosamente riuscivano a stare insieme.

Qui, Cucinella non era solo “spalla” di Scaldati, ma deuteragonista, che con la sua aspra vocalità siciliana e la sua fisicità strascicata da mimo fumista era motore di una patetica tragedia senza speranze: quasi due clown beckettiani, un duo beckettiano in terra siciliana. E non è un caso che, prima ancora del Pozzo dei pazzi, nei primissimi anni ’70, Cucinella era stato protagonista del beckettiano Atto senza parole con la regia di Scaldati, dove già la sua mimica esitante, buffa e stalunata s’imponeva con grande forza.

Nel video, Nosrat si muove su due diversi piani: Cucinella ripreso nel salotto di casa mentre recita con affabulato compiacimento le sue poesie-filastrocche e che poi racconta con una certa allegrezza mista a nostalgia la sua infanzia, il suo incontro con Scaldati, i primi canovacci da cui nascevano gli spettacoli, i successi, il declino; e Cucinella en plain air, in una spianata di fronte al mare estivo, vicino ad una casamatta abbandonata; nel mezzo, c’è l’occhio della memoria, con in primo piano le fotografie in bianco nero che ritraggono gli attori della Compagnia del Sarto negli anni ’70, quasi un album evocativo di una stagione “eroica”, di una società artistica perduta, di terra, di paese e di borgata, piuttosto che di metropoli. (E non dimentichiamo che Cucinella è di Cinisi, Scaldati di Montelepre.)

I piani s’intrecciano, vanno e vengono, scompaiono e ritornano, si compongono e scompongono, a realizzare un mosaico, uno zibaldone – per dirla con le parole dello stesso Nosrat –, in cui Cucinella è, appunto, composto e scomposto sul filo della sua clownerie: a parte l’album della memoria, con in sottofondo il suo commento malinconico, il Cucinella seduto in salotto che racconta se stesso o in corridoio che, come danzando in una sala-prove, recita brani di spettacolo, quasi facendosi beffa di sé, è l’altra faccia del Cucinella muto sulla spianata vicino al mare, mentre tuona il rombo degli aerei e accanto un misterioso personaggio dorme su una sdraio. All’espressività delicata e conviviale del primo fa da contralto la maschera ruvida del secondo, quando, liberatosi della dimensione dell’“essere con gli altri”, emerge l’interiorità dell’uomo e dell’attore, il suo rapporto con la solitudine e con la finzione, il distacco e l’assenza, l’abbandonarsi ad un balletto (ancora una volta) nella natura, dove da quel corpo massiccio viene fuori un’improvvisa leggerezza incantata, opposta alla pesantezza dell’esser seduto sul divano del salotto, e infine il suo giocare con la macchina da presa, davanti alla quale esibisce le sue smorfie, il suo attonito stupore, il suo ghigno beffardo, il suo riso liberatorio.

Per chi non ha mai visto Gaspare Cucinella sul palcoscenico, il video di Nosrat è un prezioso documento che ne restituisce immagine, carattere e storia, fra realtà e magia del teatro. Un video calibrato, con delicate metafore sottese, nel quale il protagonista ha libero il campo lasciatogli dalla discrezione del regista, del quale tuttavia si intuisce la presenza, come in quei momenti in cui una cornice spunta a confinare la figura dell’attore (elemento costante che caratterizza i video di Nosrat) o una punta di luce insiste sul volto del protagonista.

Per chi non lo ha conosciuto sulla scena e per chi l’ha conosciuto, e per lui stesso, resta la domanda: perché il talento naturale di Gaspare Cucinella non è esploso come avrebbe meritato, circoscritto appena da stretti limiti regionalisti? Nessun dubbio che la sua maschera teatrale e cinematografica avrebbe potuto avere ben altro destino. La risposta non c’è. I treni si prendono e si perdono. E se forse Cucinella è stato un po’ troppo timoroso, umile, discreto, orgoglioso, grande colpa è del cinema e del teatro italiani, registi e critici in primo luogo, che se lo sono lasciati ignominiosamente sfuggire.

 

NOTE DELL’AUTORE

 

Classificare un attore come Cucinella, legato- indissolubilmente- alla esperienza scaldatina non è facile. Egli sfugge da qualsiasi forma di aggregazione teatrale ufficiale manifestatasi a Palermo. La sua attività di attore atipico può avere una parentela con l’esperienza dell’avanspettacolo e in particolare con quella dei “travaglini”.

Ma ciò che rende interessante la figura di Gaspare non concerne in ciò egli che sin ad ora ha potuto realizzare bensi in quella che non ha potuto realizzare e di cui è stato privato il suo talento. Egli appartiene alla lunga categoria degli artisti “non espressi” . Per i quali, magari anche in maturità nell’arte, l’unico luogo possibile diventa lo spazio del proprio corpo, della propria dimora. Non a caso in questo film da me dedicato a lui, egli solo nel stretto spazio del corridoio ( appunto, l’unico spazio possibile) della sua casa a Cinisi rievoca i suoi celebri personaggi che spaziano da “Il pozzo dei pazzi” sino alle ultime poesie scritte da lui in dialetto. Deducendo che ora -come nel passato- egli non possa varcare la soglia della Scena Tearale. Insomma la solitudine, e l’abbandono rimane la chiave di lettura per questo geniale teatrante poeta di Cinesì.

Il mio omaggio all’attore Cucinella (Buster Kiton siculo) vuole comunicare questa solitudine e questo abbandono.

 

BIOGRAFIA DI GASPARE CUCINELLA

 

Gaspare Cucinella nasce a Cinisi il 16 marzo 1924 da genitori Giuseppe Cucinella e Rosalia Cardile.Secondo dei tre figli, altri sono: Nicola, 1923 e, Matilde, 1934.

Gaspare sino da giovane lavora per un breve periodo in un circo equestre e nell’avanspettacolo.

Attore poeta, ballerino di tip-tap, nel 1957 sposa Vincenza Pizzo, nativa di Cinisi, dal quale matrimonio nascono due figli Giuseppe, 1958; Giacomo, 1962.

In seguito viene assunto alla Poste di Palermo, dove rimane per trentaquattro anni, ma la sua passione è sempre rivolto alla recita e in particolare al teatro.

Tramite un amico, Antonio D’Amico, conosce Franco Scaldati, attore, drammaturgo, poeta palermitanoil quale a quei tempi praticava il mestiere del sarto con il quale stringe un soldalizio di notevole importanza divenendo una sorta di spalla permanente e parte inscindibile di un teatro basta sulla marginalità “eccentrica” ed
intrisa di una profonda palermitanità allora inedita per tutti. Nella prima prova come attore diretto da Franco Scaldati realizza “Atto senza parola”, di Samuel Beckett; per poi approdare nel 1976; al celebre “Pozzo dei pazzi”, 1976, testo/spettacolo cult, che nelle successive generazioni artistiche palermitane potè esercitare notevoli influenze in vari ambiti del linguaggio teatrale e visivo inaugurando anche una sorta di “quarto stato del soggetto teatrale”.

Di seguito vengono altri spettacolo celebri come: “Lucio”, nella prima edizione del 1978 e nella seconda edizione scenica del 1990; “Manu Mancusa”, 1978; “Cagliostro dei buffoni”,1979; “Assassina” , “La Guardiana del’acqua”, 1985; “Il cavaliere del sole”, 1986; “Totò e Vicè”, 1993; “Libro notturno”, 2006.

Ancora per la regia di Pietro Carriglio partecipa come attore alla messa in scena di “Finale di partita”, di Samuele Beckett, e , “Delirio a due” di Eugène Jonesco, 2002.

Con il film “La zampa” : (un trattamento libero de “Il pozzo dei pazzi” e per la regia di Diego Buonsangue e Gian Mauro Costa, inizia il suo lavoro nel cinema per poi proseguire con Johnny Stecchino, di Roberto Benini, 1991; I cento passi, di Marco Tullio Giordano, 2000; Il giorno di San Sebastiano, di Pasquale Scimeca, 1993; Il Consiglio d’Egitto, di Egidio Greco, 1991; La meglio gioventù, di Marco Tullio Giordano, 2003; Rosso Malpelo, di Pasquale Scimeca, 2005.

Di recente per la casa editrice Coppola di Trapani ha pubblicato il volume di poesia in dialetto dal titolo: La ballata del teatrante.

SCHEDA

TITOLO: Gaspare Cucinella, ritratto di un attore

DI: Nosrat Panahi Nejad

CON: Gaspare Cucinella

FOTOGRAFIA- AUDIO-MONTAGGIO: Nosrat Panahi Nejad

DURATA: 42 minuti

PRODUZIONE: Luisa Mazzei- Nosrat Panahi Nejad, Palermo 2008