Il pozzo di scaldati teatro senza tempo

02/04/2008

Spettacolo che lui non vide (almeno in quell’ edizione) e che perciò affronta con un occhio curioso, meno coinvolto e più disponibile allo spaesamento. Il film si proietta venerdì al l’ Auditorium della Rai (viale Strasburgo 19), alle 19 e alle 21. Interverranno Valentina Valentini, Salvatore Ferlita, Franco Scaldati e Nosrat Panahi Nejad. Nejad è partito da una vecchia fotografia in bianco e nero che ritrae in posa i giovani protagonisti del Pozzo dei pazzi del ’76, smontandola e rimontandola in un puzzle di minuti frammenti, per costruire un’ opera che, se non intende rendere le suggestioni dell’ atmosfera di quella stagione, possiede lo sguardo diacronico di chi, filtrandola obliquamente, cerca di cogliere le tracce di un’ esperienza che continua fino ad oggi, all’ interno di una città-quartiere che sembrerebbe sfuggire al tempo. E lo fa talvolta un po’ confusamente, talaltra con felici intuizioni, in un susseguirsi di piani incrociati, spesso sovrapposti, in una continua alternanza di interni ed esterni, di memoria e della sua rilettura, dove, sull’ ossatura prolissa della rievocazione, le varianti strabiche del presente costituiscono il suo migliore respiro. Intabarrato nel suo cappotto scuro, berretto di lana in testa, Scaldati narra la nascita dello spettacolo, le improvvisazioni con Gaspare Cucinella, violenza, dolcezza, candore, crudeltà, rappresentazione di un mondo arcaico e senza freni, che costituiva la forza innovativa di quel teatro povero di mezzi, ma ricco di fantasia. è sprofondato in una poltrona in stile, al chiuso di uno squallido salone dall’ odore stantìo, dalle pareti sbrecciate e verniciate di un rosso rugginoso, nel “suo” centro sociale all’ Albergheria, culla del suo lavoro da tanti anni. E su di lui piove a vista un bastone che sorregge il bagliore stonato di una lampada che dà luce alla ripresa. Le immagini immediatamente successive ci trasportano en plein air, in un ampio spazio nei pressi di Punta Raisi, fra un casolare e resti di muri, il mare a vista, rombi d’ aereo, dove passeggia Gaspare Cucinella: agita mani e braccia, non rievoca, non parla, lancia il suo volto, ora spiritato, ora carico di stralunato stupore, come un lampo feroce, contro la macchina da presa che barcolla; mentre lì accanto un altro personaggio è assopito, disteso su una chaise-longue. Ecco, ora, dopo 32 anni, Aspanu e Binirittu, i due straordinari protagonisti del Pozzo dei pazzi hanno lasciato i loro amorevoli ed efferati litigi per una gallina, e si ritrovano distanti, in un sogno al rovescio, l’ uno doppio dell’ altro: il realismo lirico di Scaldati, lungo i corridoi del centro sociale, che legge il tremore metafisico del suo Libro notturno o, con tono incantato alla luna, le gesta di Lucio lo storpio e di Illuminata che lo tradisce; e l’ espressionismo muto di Cucinella, sentinella beckettiana, in piena luce diurna, di un pianeta attonito che non si spiega la sua presenza in una galassia di cui ha smarrito l’ alfabeto. E la gallina di Aspanu e Binirittu non c’ è più: ora è solo un corpo impagliato, leziosa testimonianza di un furore perduto nel pozzo della memoria d’ un altro tempo. Ma se l’ occhio di Nejad rivisita i due protagonisti come in una sorta di malinconia della reciproca assenza, il racconto del Pozzo dei pazzi ritorna in scampoli di altre foto, nei ritagli di giornale, nella sobria cronaca che Melino Imparato fa del loro teatro in quegli anni (dal “Pungolo” alla “Locanda degli Elfi”), nei ricordi affettuosi di Fabio Cangiatosi, due compagni d’ allora e ancora di adesso. E poi, non c’ è Palermo, c’ è il quartiere, l’ Albergheria, che per Scaldati è la “sua città”, attraversato per squarci notturni di luci fluorescenti vagamente pittoriche e anch’ esse rugginose: vicoli, strade, piazzette desolatamente deserte, se non fosse per qualche ombra fugace e per il passaggio di una Smart. Ma se fosse una Seicento, potrebbe essere una scena di trent’ anni fa. L’ “occhio palese” di Nejad ondeggia, plana, danza, dissolve, si ripete, indugia su dettagli, come un bacile pieno di cicche, un’ edicola votiva, un battipanni, una sfumata composizione orientale omaggio a Santa Rosalia, e talora si fissa come a voler estrarre da un’ immagine il pozzo dei mille rimandi della memoria. E chiude nel contemporaneo, durante le prove di Assassina o di Santa e Rosalia, nel fresco cortile del centro sociale con la sua delicata intimità lussureggiante, fra le presenze silenziose di attori e musici ed il canto, ispirato ed evocatore come una nenia, di un’ attrice d’ oggi, Egle Mazzamuto. E nel cortile, per caso, c’ è un pozzo. Ma non è quello buio, insondabile e senza fondo dei “pazzi” miserabili, “diversi” ed emarginati, anima innocente del mondo; o quello del teatro, che nasconde i fantasmi delle nostre pulsioni o i vermi dei nostri misfatti. è un piccolo pozzo a vista, ed è vuoto, perché si possa riempire dei gesti, delle parole dei sogni, del lavoro del teatro di Franco Scaldati e dei suoi compagni, artigianale e come “fatto in casa”, ancora diverso, ancora per tentativi, ma dello stesso luminoso ceppo di quello del Pozzo dei pazzi.

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