Storia di Marco

 

 

 Paolo Emilio Carapezza 

Storia di Marco e di Federico,

(Introduzione all’ anteprima del videofilm Storia di Marco di Nosrat Panahi Nejad, Palermo, Steri, Sala Magna, 8 Aprile 2015 alle 18) 

  1. Lettere Persiane[1]

Trecent’anni fa il barone di Montesquieu fingeva d’ospitare due persiani, Usbek e Rica, e nel 1721 pubblicava, tradotte in francese, le loro lettere immaginarie. L’estraneità fa loro scoprire […] l’assenza di nessi logici, la mancanza di coerenza: si svela così la supposta trama delle credenze e delle istituzioni occidentali. Le connessioni serrate non esistono o non si realizzano più […] uno sguardo non prevenuto sa vedervi le lacune e le rotture. […] La loro attenzione è attirata dalle irregolarità […] dai suoi epifenomeni più evidenti, per ciò che vi semina turbamento e scandalo […] Lo stupore di Usbek e Rica li fa apparire inutili e parassitari […] farà così cadere tutta una serie di maschere e di travestimenti […] La moneta falsa è onnipresente e i persiani la denunciano, con ingenuità o collera, togliendo agli oggetti di fede i loro nomi prestigiosi, per non lasciare che la sottile superficie che lasciano alla percezione ingenua. Il libro si conclude sullo spettacolo di un fallimento (Starobinski 2000: 13-15).

Noi oggi davvero ospitiamo (da trentanove anni in Italia, da ventiquattro a Palermo) un persiano, Nosrat: egli stesso in italiano scrive e pubblica parole e testi, ma specialmente d’Italia coglie e ferma e proietta immagini: fotografiche e cinematografiche. La sua estraneità sempre più s’è trasformata in ingenuità: non nel senso corrente d’ essere sprovveduto e inesperto delle nostre cose, ma nel senso etimologico d’essere, d’esser divenuto anzi, “indigeno, naturale del paese”, connaturato; e nel senso metaforico di “libero e schietto”, “acuto e ingegnoso” (Devoto-Oli 1979: I, 1323). L’iniziale “stupore” s’è col tempo approfondito in conoscenza essenziale: sicché il suo sguardo non è, come quello di Usbek e Rica, corrosivo per scoprire assenza di nessi logici e mancanza di coerenza, lacune e rotture, irregolarità ed epifenomeni, turbamenti e scandali, maschere e travestimenti; né, scavando gli oggetti, ne mostra sottili e vuote le bucce.

Il suo sguardo è piuttosto capace di sceverare, tra tanto male, un po’ di bene; di cogliere ipofenomeni e profonde realtà positive, di rivelarci il senso dell’agire e delle opere dei nostri migliori artisti contemporanei. Un suo documentario cinematografico del 2006 riguarda il fratello di Marco: Federico Incardona (1958-2006), nostro gran compositore e maestro di composizione.

  1. Fratelli, artisti, palermitani[2]

Fratelli, artisti, palermitani: l’uno compositore, l’altro pittore. Breve e travagliata la loro vita: Federico vive quasi 48 anni, dal 13 maggio 1958 al 29 marzo 2006; Marco poco più di 38, dal 13 dicembre 1961 al 30 maggio 1999. Bellissimi, sia gli autori che le loro opere. Figli di Nunzio (1928-2003), professore di filosofia teoretica, e di una donna anche di nome angelica, Raffaela Potenza. L’angelica potenza del cognome della madre si attua nelle limpide immagini sonore e visive dei figli; in queste peraltro si dispiega, si decanta, si rivela il pensiero filosofico paterno, denso e intenso, complesso, spesso astruso, oscuro come quello di Eraclito. I figli artisti ne condividono la rigorosa fortissima tensione dialettica, ma questa esplode, divampa e tutta si risolve nei loro procedimenti artistici, illuminando, e impregnando di senso metafisico le limpide incandescenti immagini che nelle loro opere s’incarnano.

Tra la filosofia paterna e l’arte dei figli c’è lo stesso rapporto che tra l’enigmatico proemio del poema lustrale di Eraclito e il perspicuo prologo del Vangelo di san Giovanni, che ne deriva:

Di questo Logos, che è, sempre incomprensivi sono gli uomini, e prima d’udirlo e appena uditolo: essendo create tutte le cose con questo Logos, da ignoranti dicono e fanno […]: con chi hanno il rapporto più continuo sono in disaccordo (Eraclito, DK 1).

In principio era il Logos, e il Logos era presso Dio, e il Logos era Dio. Tutte le cose furono create col Logos, e senza di lui neppure una delle cose create è stata fatta. In lui era la vita, e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, che non la presero (Giovanni, 1, 1-5).

San Girolamo, mancandogli in latino un termine dal campo semantico altrettanto ampio, ha tradotto il greco Logos con Verbum, donde il “Discorso” di Diano, la “Espressione vera” di Colli, la “Verità” di Marcovich; ma Schneider traduce Laut, cioè “Suono” intenzionale, voce articolata. San Giovanni intende Logos come “Energia creatrice”, sonora (“Suono”) e luminosa (“Luce”), creatrice della materia e della vita; come dopo oltre 18 secoli avrebbe confermato Einstein.

Ma per Nunzio il Logos è piuttosto, come per Pitagora, rapporto tra i suoni governato dal Numero, e quindi Ragione, Intelletto. Per Federico è Suono; per Marco Luce.

La realtà cosmica può manifestarsi tanto in linguaggio mitologico, quanto nelle forme della filosofia o della matematica, della musica o di qualunque arte in genere. Questa possibilità di manifestarsi è inerente alla natura del mondo, che è infatti ideomorfa, vale a dire anche spirituale e adatta quindi ai modi d’espressione filosofici e matematici. Ma è anche immaginifica e musicale, e tutto ciò insieme. Della ricchezza d’immagini della mitologia più facilmente si può parlare in termini musicali.[3]

Federico e Marco seguono Giovanni, fino all’incarnazione del Logos nelle loro immagini: immagini sonore sempre umane, discorsive, parlanti, quelle di Federico; immagini visive di tutti i tre regni, animale, vegetale, minerale, quelle di Marco: ma anch’egli aveva iniziato con immagini vive di corpi umani. Sono artisti decisamente espressionisti: ascendenti diretti di Marco sono Van Gogh e soprattutto Kokoschka, di Federico invece Webern e soprattutto Mahler.

Nel 1904 Mahler, mentre componeva la sua Sesta Sinfonia, scrisse all’amata moglie Alma: “Ho tentato di fissare il tuo carattere in un tema”. Federico fissa il carattere del suo amico Marcello in una serie dodecafonica e intona un Ritratto di giovine nel suo diciannovesimo anno di età (1981-2000); rappresenta in  immagini sonore l’Immagine di un corpo (1981), DesFreundesUmnachtung (“Ottenebramento dell’amico”, 1985) e la sua Lontananza (1986), “l’ardore della febbre”, di cui egli stesso brucia (Per fretumfebris, 2000), la sua apostrofe alle ceneri del padre e del fratello (Ho chiesto alla polvere, 2003), la profezia della sua morte immatura (Il resto alle ombre, 2004).

Nel 1919 Kokoschka dipinge distesa la sua Donna in azzurro, oggi nella WürttembergischeStaatsgalerie di Stoccarda. Marco nel 1988, “con sensuale tattilità […] alla ricerca spasmodica d’una verità che è all’interno dell’essere”,[4] dipinge il suo Efebo celeste, il Cristo ancora disteso ma ormai risorgente, in cui davvero il Logos duemila anni fa si è incarnato.

Figura 1 – Marco Incardona, Resurrezione, 1988:

olio su tela, cm. 100×140 (Palermo, collezione privata).

Federico lo conobbi sedicenne: venne a trovarmi nell’autunno del 1974 nell’Istituto di storia della musica dell’Università di Palermo, per invitarmi ad ascoltare, in casa del suo professore liceale di filosofia, un singolare concerto: egli stesso e un suo compagno di classe sonarono, con flauti diritti, alcuni Ricercari a due voci dei massimi compositori siciliani del XVI secolo, Pietro Vinci e Antonio Il Verso, che io avevo pubblicato due anni prima nel secondo volume del corpus di Musiche rinascimentali siciliane. Bruno Maderna, mio maestro di composizione, seguendo l’esempio del suo maestro, Gian Francesco Malipiero, formava i suoi discepoli con lo studio della polifonia rinascimentale: da questa affascinato, da compositore ero divenuto musicologo. Federico l’aveva trovata da sé. In Istituto aveva poi trovato, in partiture e in dischi, musiche d’ogni epoca, ma specialmente quelle del XX secolo.

Prima di lui un altro compositore, Salvatore Sciarrino, oggi celeberrimo, s’era così formato nel mio Istituto. Ma, mentre questi era presto emigrato, Federico vi rimase per sempre, fondandovi una florida scuola di composizione.      E a Palermo, al Politeama Garibaldi, avvenne nel 1977 il suo debutto, quando l’Orchestra sinfonica siciliana, diretta da Angelo Faja, vi suonò la sua prima sinfonia, MithöchsterGewalt.

Marco lo conobbi all’inizio degli anni Ottanta: si era formato anch’egli a Palermo, nell’Accademia di belle arti. Dopo che sue opere erano state esposte in mostre collettive a Palermo, Bari e Venezia, nel 1987 dipinge le scene e la predella di palcoscenico per la rappresentazione della chant-fable  medievale AucassinetNicolette nella corte dello Steri, sede del Rettorato dell’Università di Palermo; poi nel 1988, nella sala mostre dell’Opera Universitaria, ha luogo la sua prima personale.

Sia Federico che Marco andarono ad abitare nei mercati popolari di Palermo, l’uno all’Alberghería, l’altro alla Vucciría; entrambo attraversarono una profonda crisi esistenziale, discesa agli inferi, anzi in purgatorio: ne riemersero assieme e ne riemerse decantata, illimpidita, la loro arte. L’armonia di tenebra e di luce, che la costituisce, si inverte; dal predominio di quella al predominio di questa. MehrLicht! (“più luce!”): il titolo di due composizioni di Federico degli anni ’80 fu profetico.

Figura 2 –Federico Incardona, MehrLicht! 2, 1989, per soprano, violino, pianoforte ed ensemble strumentale: misure 13-17, parti del violino (nei cinque pentagrammi superiori) e del pianoforte (negli otto inferiori).

Negli ultimi suoi anni Marco si innamora del mare, e specialmente dell’Egèo: della sua luce, dei suoi colori, delle sue creature, pesci e cetacei, ma anche delle barche, delle navi, dei fari e dei porti.

 

Figura 3 – Marco Incardona, Storia di solitudine e tempesta, 1998:

tecnica mista su carta, cm. 35×25 (Palermo, collezione privata).

Federico s’innamora dell’intero universo, ma specialmente del cielo e della terra; in una lettera del 30 novembre 1994 così mi scriveva:

Un universo infraudito, inaudito, allora si manifesta nella sua magnificenza […]. Come l’aquilone lanciato da mani tranquille nei cieli indica Altro, la musica  circoscrive lo spazio di ciò che dovrebbe essere: indicandolo salva il mondo che indifferente si dondola nello spazio e restituisce agli esseri ed alle cose il loro splendore offuscato dalla stanchezza […] la musica è realmente allora la restituzione della voce a coloro che l’hanno persa, il canto delle pietre, dei cieli, degli alberi, la danza ebbra delle stelle notturne, la ferina acciaio-invadenza ladro-bricconesca del sole.

Forse – parafrasando quanto affermano Metzger e Riehn  riguardo a Franco Evangelisti, il compositore romano che per Federico fu punto di partenza – l’ultima visione di Federico e di Marco è “la sospensione della conoscenza in una nuova creatività. Forse si tratta […] di un progetto salvifico per l’umanità, che va ben oltre la validità delle strutture musicali”[5] e pittoriche.

Non solo per la loro arte, che continua a risplendere, Federico e Marco rimangono vivi tra noi, ma per il fascino personale che continuano ad esercitare persino su chi è troppo giovane per averli visti in carne e ossa. L’Associazione culturale Azul – Laboratorio per le arti “Marco Incardona”, costituita a Palermo nel 2000, inventaria e cataloga le opere di Marco, ne promuove mostre, nonché studi e ricerche su di esse. E sono già ben più d’una dozzina gli studiosi –non solo quelli di cui Federico fu maestro diretto, ma anche altri ancora più giovani – che continuano a scegliere la sua musica come argomento delle loro dissertazioni di laurea, di laurea magistrale e di dottorato, a scrivere libri e articoli su di lui, ed a curare edizioni critiche delle sue opere, edite prima da Ricordi ed oggi da Raitrade.

Nell’aula di musica dell’Università di Palermo, al primo piano di via Divisi 83, dove Federico tenne le sue ultime lezioni, e dove la sua musica continua a risonare, risplende la predella di palcoscenico dipinta da Marco nel 1987: a Federico ed a Marco quell’aula è dedicata.

 Paolo Emilio Carapezza

         Palermo, 8 Aprile 2015

Note:

[1] Questo primo paragrafo deriva dalla mia introduzione ad un libretto stampato per l’anteprima d’un altro documentario cinematografico di Nosrat Panahi Nejad: Michele Perriera, Frammenti di un romanzo d’amore, Palermo, Biblioteca Comunale, 2006: pp. 2-3.

[2] Questo secondo paragrafo deriva da un altro mio articolo: Federico e Marco Incardona, “21: arte, cultura, società”, n. 3, 2012: pp. 73-76.

[3] Carl Gustav Jung e Károly Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Torino, Paolo Boringhieri 1964 (1.a ed. 1948): p. 41.

[4]    Vincenzo Ognibene, Il viaggio di Marco, nel catalogo della mostra Segni e abissi, Palermo, Azul 2001, pp. 3-4: p.3.

[5] Heinz-Klaus Metzger e Rainer Riehn, prefazione a Franco Evangelisti, Dal silenzio a un nuovo mondo sonoro, Roma, Semar 1991, p. XVI.

 

 

Fig. 3 - Storia di solitudine e di tempesta

 

 

Fig. 1 - Resurrezione da foto

 

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Salvatore Tedesco

Storia di Marco – Un videofilm di Nosrat Panahi Nejad

La storia di Marco, e la storia di Federico. Forse sarebbe possibile descrivere l’intera vicenda intellettuale di Federico Incardona a partire dalla sua duplice fascinazione per Mahler; meglio ancora, sarebbe possibile descriverla come il proposito coscientemente perseguito di riattraversare lo spazio immaginativo musicale a partire da una duplice prospettiva, dallo stesso Mahler consegnata a due splendidi Lieder del ciclo del “Corno magico del fanciullo”: Das irdische Leben, Das himmlische Leben, la vita terrena, la vita celeste. Fra lo spessore materico del primo e la levità solare degli intermundia del secondo si distende la musica di Federico, ascoltando la quale ogni volta si rinnova lo stupore per un’opera cui è riuscito di far passare attraverso quel percorso una delle più significative esperienze compositive degli ultimi decenni.

Se la musica di Federico ha raccontato la vicenda di questo percorso, anzi ne è stata il diagramma fedelissimo e il resoconto appassionato, e si è costantemente sostenuta in questa polarità fra la vita terrena e la vita celeste, fra il suono sporco materico e la voce acutissima che dice la luce e sa farsi essa stessa luce, il fratello Marco ha scelto per sé di raccogliere quella duplicità in un unico orizzonte e di renderne testimonianza secondo un mezzo, la pittura, che del proprio porsi in uno strato vitale ed emozionale che sta prima di ogni molteplicità, di ogni distanza temporale, di ogni abisso spaziale, di ogni polarità emotiva, nella composizione ed esposizione unica dell’immagine, fa la propria ragione costitutiva.

Quel che nella musica di Federico si articola narrativamente, nella pittura di Marco continuamente si rifonde e fuoriesce da un’unica rappresentazione, e dice una fascinazione costante, apparentemente senza sviluppo, per quanto di più elementare vi è nella potenza della visione: l’immagine è qui elettivamente immagine del mare. Potenza di un elemento da cui ogni forma potrebbe provenire, ma anche potenza di un elemento in cui ogni forma, ogni storia, ogni racconto nuovamente s’immerge. Come nelle pagine di Melville, amate da Marco, si avverte “il potere magnetico degli aghi delle bussole”, figure potenti si profilano sulla superficie per risolversi ancora nell’unica immagine del mare.

Come accostarsi a questa vicenda? Come provare a dirne, e come rispettare Marco nella sua lontananza? Due testimoni sapienti accompagnano la narrazione: Orizzonte di prima luce. Storia di Marco, è il libro che il padre, il filosofo Nunzio Incardona, scrisse per il figlio, indicando le stelle fisse su cui si era orientato il suo cammino – la luce, il mare – e scavandovi dentro come abissi le proprie parole commosse; a quelle parole offre la propria voce Salvatore Lo Bue, amico e maestro di Marco, e quegli stessi abissi fa fiorire con una eloquenza piena.

Lo sguardo di Nosrat – questa la diagnosi dello stesso regista sulla propria operazione – “si posa sull’assenza”, e di quell’assenza va tastando le tracce, ne avverte il potere magnetico nella deviazione che essa procura al tentativo del regista di raccontarne la storia. Le opere di Marco, inizialmente avvolte in bianchi lenzuoli, s’indirizzano verso lo sguardo della macchina da presa, ne attraversano obliquamente lo spazio, cedono la voce alla materia viva dei loro colori, alle forme, dicono ancora la presenza delle mani da cui provengono.

Un grande ritratto, un nudo su uno sfondo blu, accompagna a lungo il nostro sguardo, poi ancora ci si presenta, quasi sulla soglia della casa materna, e qui forse più che in ogni altro punto del racconto l’ago magnetico – rintracciando nell’opera pittorica e nel modo dello sguardo la storia di Marco, la sua presenza – interrompe e circostanziatamente fa riprendere la narrazione, scompaginando le previsioni, le abitudini visive e narrative, trasformando l’immagine stessa in attesa, in nascita, nello scaturire di uno sguardo nuovo che a quell’immagine corrisponda, che le offra la parola e la faccia vivere.

E dunque allora, nella memoria e nelle parole della madre, le più alte del film, parole che non esprimono il rimpianto di un’assenza, ma dicono la fiducia in una presenza amata, anche se ormai troppo lontana, la storia di Marco smette di tessere la rete preziosa dei significati e del valore di una ricerca, e semplicemente diventa quello che, in fondo, è la storia di ogni essere umano: irriducibile, mai compiuto dialogo, ricordo, immagine amata.

 Salvatore Tedesco

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 Nota dell’autore

Questo  documentario  dedicato a Marco Incardona  si posa sostanzialmente sull’ assenza. Il soggetto mancante  anima l’interno di ogni immagine-sequenza e condiziona e mescola la visionarietà e l’informazione  onde liberare la vita autonoma delle opere e la loro comprensione affettiva e poetica, quindi umana. L’andamento filmico sonda e fende gli spazi a guisa degli antichi  rabdomanti  dell’acqua. Si cerca la storia, la si deve inventare durante la realizzazione filmica. All’inizio del film vediamo tutte le opere di Marco (segni e sinopie di una abilità manuale all’antica)  avvolte in un bianco drappo e custodite con cura e conservate  lontano dagli occhi e dall’invasione dell’improprio. Adagio adagio  si   trasportano le opere , frammento per frammento e di stanza in stanza, dal corridoio ( stretto, difficile, ostile ) all’ampia sala  illuminata con luci e colori,  di modo che lo spazio (la casa materna) si riempia di quadri e di  una disordinata ed intensa esposizione  poetica che in verità è origine e dimora  del colore e del suono  e del verbo che  coagulandosi  nel corpo filmico forgiano  un Uno nel volto della Madre.                                  

                                                                                                                                                                                                                                               Nosrat Panahi Nejad

 

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Storia di Marco

 di

Nosrat Panahi Nejad 

l’anteprima del docufilm

dedicato a Marco Incardona

Complesso monumentale dello Steri, Sala Magna, 8/04/2015 ore 18.00

Piazza Marina, 61, Palermo

 

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Schede del film

Storia di Marco

di

Nosrat Panahi Nejad

Con:

Raffaela Incardona

Salvatore Lo Bue

Marzia Cagnes

Ester Cremona

Fotografia, audio, montaggio: Nosrat Panahi Nejad

Musica: Federico Incardona

“Per fretum febbris”

Orchestra e coro di voci bianche

del Teatro Massimo Direttore Augusto Vismara 20 maggio 2000

Durata: 48 minuti

Produzione:

Luisa Mazzei

Nosrat Panahi Nejad