Archimede, breve e lacunosa storia di una sala cinematografica al Borgo Vecchio di Palermo

 

 

 

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DI GREGORIO NAPOLI

Ragazzi e ragazzini sostano dinanzi agli ingressi delle sale cinematografiche (…) Qualcuno di essi riesce a procurarsi un pezzetto di pellicola, lo mostra ai compagni che golosi lo annusano, e lo guardano contro il cielo, nei piccoli rettangoli intravedono forse quello che non c’è.

            Queste parole furono scritte da Mario Gromo nel 1953-54 ed appaiono nell’ormai introvabile Cinema italiano edito, in quegli anni, dalla Biblioteca Contemporanea Mondatori. Critico cinematografico del quotidiano La Stampa, dunque maestro di successori quali Leo Pestelli, Stefano Reggiani ed ora Lietta Tornabuoni,  il Gromoinventò, con Filippo Sacchi, la recensioneper i giornali quotidiani. Un genere a suo modo letterario, oggi sempre più in disuso; un genere che doveva compendiare la chiarezza espositiva e la profondità dell’analisi estetica. Niente discorsi fumosi, bensì una prosa asciutta ed esauriente, che il lettore adocchierà fuggevolmente, la mano destra appesa al sostegno dell’autobus, la sinistra sul foglio spiegazzato. Riprendiamo il libro di Mario Gromo. Cosa cercavano i ragazzini di poc’anzi?  Nei piccoli rettangoli ritrovavano e riaccendevano il loro desiderio di cinema, che “sull’eco del tamburellìo di un pianoforte, e di un tremolio che increspa le palpebre, lascia rivedere alberi che fuggono come scappa un codardo, marosi che s’arrembano all’assalto dei pirati, ma soprattutto una generosa scollatura d’un bianco di gesso e di farina, che palpita al dischiudersi di molli labbra d’un nero di carbone.

Io non so se Giuseppe Tornatore ed Ettore Scola avessero letto le pagine di Gromo quando, nel 1988, pubblicarono rispettivamente Nuovo Cinema Paradiso  e  Splendor.  Sta di fatto che i frammenti di celluloide, nel paesino siciliano o ad Arpino, nei pressi di Frosinone, vengon deglutiti dai ragazzini con la medesima, famelica voracità dei piccoli estimatori gromiani.  E se l’illustre firma deLa Stampasi riferiva al muto  –  una civiltà scomparsa – Il bagherese Peppuccio e l’avellinese Ettore intonano l’epicedio non alla Settima Arte – che, con buon margine d’approssimazione, possiamo considerare imperitura – bensì alla sua circuitazione, al modo d’esser distribuita e proposta, in un mercato ondivago e sitibondo per esangui incassi, qual è quello attuale. Su registro ben diverso si muove Nosrat Panahi Nejad.  Egli tralascia la finzione scenica, si allontana dalla novella, e punta  Il nuovo principio di Archimede decisamente sul documento che, come insegna John Grierson, è giornalismo o visione poetica della realtà.  Una realtà schiaffeggiata dallo scorrere inesorabile del tempo e dal capriccio delle mode.  Archimedeè definito dal cineasta Nosrat “breve e lacunosa storia di una sala cinematografica al Borgo Vecchio di Palermo”. Il sottoscritto non è d’accordo. Nosrat procede col sussurro ineffabile della griersoniana “visione poetica”.  I ricordi dell’ultimo protezionista Rosario Di Piede si saldano all’eco delle antiche pellicole, ai fotogrammi scheggiati, ai detriti accumulatisi entro il perimetro delle poltrone dimesse, delbuen retiro  dove rifulse la Arriflex; mentre dalla polvere affiorano i quadrucci già ritmati dalla Croce di Malta, le locandine suggestionanti, i relè senza più luce,le bobine di plastica, i ferri arrugginiti; e tendendo l’orecchio si avverte il “galoppo dei cavalli” come scrisse Giovanni Grazzini quando morì John Ford;ed un barbaglio subliminale fa campeggiare sullo schermo, inesistente, Ringo Kid in Ombre rosse e la diligenza arrancante verso le colline a guglia, nelle valli dell’Utah.   

            L’eomzione va al pantografo, ma Nosrat Panahi Nejad non fa nulla per alimentarla artificiosamente.  Se mai è lo spettatore che, beandosi alla visione diArchimede, tasta il pavimento scandendo la colonna sonora cui mise geniale pentagramma Dimitri Tiomkin.  In codesta sobrietà è il segreto del film.  Nosrat ricusa la filologia della citazione sciatta, rinuncia altaglia e cuciin cui sono cattivi maestri tanti stenterelli della videocamera che  – parafrasiamo l’immenso Umberto Barbaro – invece di impiegarsi all’Eco della stampa dànno fomite a nuovi diluvi di immagini.  Dalla polvere affiora, sgualcito, il visto di censura, custode di legalità nelle ore e nei turni di proiezione. Un reperto prezioso, ieri per funzionalità di gestione, oggi per supporto di memoria.  Ed Ettore, magnifico fabbro di sinuose rotelle e tasti d’accensione, si aggira intorno al tavolo operaio, accarezzando quel che resta del Super-8 o del 16 mm.; quasi per avvertirci che nessun incendio potrà distruggere il bazar de la Charité. Pestando i calcinacci, ci imbattiamo infattinell’Assedio dell’Alcazar;  incrociamo la corsa gioiosa di James Stewart ne La vita è meravigliosa; spargiamo una lacrima sul volto di Ingrid bergman, ansiosamente avvelenata inNotorius o dispensatrice di amorevole terapia in Io ti salverò;  e facciamo scivolare uno sgardo accarezzante sulle forme esplosive di Sophia Loren inPane,  amore e…  o  scrutiamo il suo tormento inMatrimonio all’italiana;  o  sussultiamo al clacson della decappottabile nel  Sorpassooppure accenniamo in bofonchiante doppiaggio interlineare le trappole giudiziarie di Charles Laughton inTestimone d’accusaE, su tutto, vigila ovviamente l’occhio di Charlie Chaplin, là fra gl’ingranaggi tayloristici di Tempi Moderni, nell’umanesimo della Decima Musa enfatizzato dal “nuovo principio” di Archimede.

            Un Olimpo perduto?  Bè  si.  Va dunque gratitudine al documento che, sfruttando con nobiltà arcaica la magia delle immagini in movimento, restituisce dignità alla Memoria, esortandoci alla custodia degli archivi, almeno: poiché gli edifici vanno in malora.

DI SALVATORE TEDESCO

Archimede – un film politico: lo stile come memoria e immaginazione

Da anni, ormai, Nosrat Panahi Nejad ci va restituendo frammenti preziosi della memoria culturale di una città e di una regione – le nostre – facen- done parlare le voci più significative, spesso estreme, ascoltandone la vicen- da intellettuale e costruendone la narrazione nell’imprimervi il suo, singolare e autoriale, sigillo stilistico. Molto ci ha detto la ricerca fotografica e filmica di Nosrat su queste vicende e molto, soprattutto, sulle dinamiche della nostra memoria storica, della quale il linguaggio video si è assunto il compito di resti- tuire le forme molteplici, le molteplici strumentazioni espressive e modalità sensibili, e di sezionare ogni sfumatura nel realizzare di volta in volta incroci, distanze, sovrapposizioni fra le immagini, le musiche, i suoni della voce, le atmosfere degli spazi e dei percorsi.

Archimede, breve e lacunosa storia di una sala cinematografica al Borgo Vecchio di Palermo conduce adesso questa città, questi spazi, ma soprattutto la vicenda stessa della memoria, dell’immaginazione, e le regole dell’inven- zione del linguaggio video, al centro del racconto. Lo sguardo della video- camera segue a lungo i suoni, le voci, i gesti e le architetture di una proces- sione per le vie del Borgo Vecchio di Palermo, trova quindi rifugio in un vico- letto laterale, e qui scopre ed esplora una sala cinematografica abbandonata, si inoltra fra le macerie e i materiali di sgombero che hanno occupato la sala, raggiunge i piccoli spazi della sala di proiezione e qui ascolta i racconti del- l’attuale custode e dell’ultimo proiezionista del cinema, ne accompagna e documenta le brevi esplorazioni e i minuti rinvenimenti – custodie, reagenti, materiali di lavoro, una sedia, sino alle ombre lasciate sul muro da rulli di pel- licole da lungo tempo rimosse – integra e rimpiazza tali ritrovamenti con il lungo filo di una pellicola e di una storia che viene da un’altra ricerca condot- ta da Nosrat molti anni fa (la mostra milanese Cordone avulso, del 1979), las- cia riaffiorare accanto ai titoli e alle locandine dei film che passarono in quel- la sala frammenti di sequenze e di azioni, commenta e soccorre quasi con un’attenzione pedagogica le minute parti dei macchinari della vecchia sala con le spiegazioni, i disegni tecnici e i pezzi originali di una grossa azienda meccanica, e infine ritorna ad ascoltare, dopo le voci del Borgo, le musiche e i ritmi della processione d’apertura.

A quali condizioni un deposito a sua volta semiabbandonato, e che però reca ancora le tracce di una sua precedente destinazione d’uso, viene illuminato e come animato dalla vita caotica del quartiere che gli scorre accanto, e per quali motivi l’animazione, la memoria e la distrazione di quel quartiere e dei suoi abitanti trovano il loro elettivo snodo nelle immagini e nelle tecniche di cui reca traccia una sala cinematografica da lungo tempo 
deserta: ecco quanto siamo portati a seguire, a indagare passo per passo pesandone la consistenza e le impli- cazioni, nella lacunosa storia, nelle intermittenze dei differenti registri espres- sivi del racconto, nell’accendersi improvviso della luce intellettuale di un montaggio che verrebbe da dire ejzenstejniano (una grondaia pendolante nel- l’atrio si compone con l’oscillazione ritmata e con il tono pieno di una campana).

La breve e lacunosa storia del cinema che Nosrat ci presenta nei numerosi inserti, citazioni, locandine, non è una storia delle tematiche, degli autori, nemmeno un racconto delle tecniche espressive o una selezione sulla base di analogie di gusti o di sensibilità, ma è piuttosto, direi, una storia mar- ginale, che in fondo non ci dice che un’unica cosa: il racconto partecipe dei modi in cui qualcosa si trasferisce nel ritmo e nella tessitura dell’immagine, la partizione degli spazi, le distinzioni dei tempi che vi si scoprono. Tanto meno Nosrat ci racconta qui una storia delle passioni cinematografiche – piut- tosto una storia dei gesti cinematografici, degli impulsi e della motricità implicita nell’immagine: da questo i ripetuti inserti di film western, cavalcate che per un verso sono i verosimili ricordi di chi ha frequentato la sala, per l’al- tro verso forniscono, al presente, l’esatta traduzione in figura di quei gesti che riconnettono il qui della sala abbandonata e della conversazione che si svilup- pa nell’intervista con l’altrove dell’immagine cinematografica e della vita del piccolo locale di quartiere.

Proprio qui, dove la consistenza, direi la resistenza dell’oggetto scelto per il racconto si fa minima, Nosrat ci mostra come la struttura inventiva del- l’immaginazione non sia altra cosa dalla memoria conservata nei luoghi e nelle intenzioni che li hanno attraversati; solo che questa memoria non è altro – per riprendere un’espressione cara a Nosrat – che un tumulto formale, di cui la costruzione stilistica, pazientemente sperimentando e giustapponendo gli elementi materiali nella composizione, porta in luce la naturale operosità.

DI ANNA MARIA RUTA

Del pellichista e di altre storie

Delle sale cinematografiche più note, anche se oggi scomparse, il Diana, l’Olympia, il Supercinema, il Modernissimo, concentrate attorno al perimetro piazza Massimo, via Cavour, via Ruggero Settimo, piazza Politeama, dove signore e signori ancora in anni non lontani andavano alle prime in abito da sera mescolandosi agli attori presenti in sala per dar lustro alle serate, hanno raccontato in tanti e io stessa altrove. Il ricordo del Cinema Archimede, invece, esige che l’attenzione miri, anche solo per citarli, ai più ignoti e piccoli cinema di periferia, che pure hanno fatto la storia sociale di questa città, come punti di concentrazione periferica di un pubblico, a volte chiassoso e disturbatore, ma sempre desideroso di scaricare nella parteci- pazione alle vicende proiettate e nei divi loro idoli il peso della propria esistenza. E di cinema periferici ne sorsero molti a Palermo, e fin dagli esordi del Cinema; in quantità poi se ne inaugurarono negli anni Cinquanta- Settanta, gli anni d’oro del boom cinematografico: sale a luci rosse, parrocchiali o di famiglia, in cui si proiettavano storie sentimentali e lacrimose e, comunque, sempre edificanti, sale per adolescenti, in cui i ragazzi si “sganasciavano” dal ridere seguendo le avventure di Stan Laurel e Oliver Hardy o di Gianni e Pinotto, loro pendant, del piccoletto Rascel o di Macario. Poi la televisione con i suoi teleromanzi e i suoi programmi di varietà ne causò la crisi e quindi la chiusura, uno dopo l’altro.

Con la loro triplice valenza di locali al chiuso, funzionanti come cinema e come teatri e di locali all’aperto per la ricreazione estiva assolvevano una funzione etico-sociale di grande importanza e vivacizzavano luoghi emarginati della città contrassegnandoli con un certo marchio di cultura, seppure di secondo livello. Agli inizi del secolo ne sorsero tanti, si diceva, alcuni oggi ancora noti, altri totalmente sconosciuti. Nelle scritture che li riguardano non c’è traccia, per esempio, del cinema Marconi del sig. Gaspare Ponte, altra cosa dal Marconi d’oggi, che operava in corso Scinà, sulla sinistra venendo dal Politeama, prima della piazza del Borgo

Vecchio: chiuse allo scoppio
della prima guerra mondiale e ne
era proprietario uno dei Ponte,
attuali intestatari di vari Hotels, 
che avevano anche un altro cinema in via Pignatelli Aragona.
Una Ponte, attenta a ricostruire i
fatti di famiglia, ricorda oggi che
a casa il nonno raccontava sem-
pre del pellichista, l’uomo che
girava la manovella di pirandel-
liana memoria, e rimpiangeva il pianoforte suonato in sala dal vivo e poi sos- tituito dal grammofono a tromba. Anche lei vorrebbe saperne di più su queste storie, ma i documenti mancano e la memoria si perde negli abissi del tempo. Nel 1908 esisteva già un Cinema Ballarò, all’Albergheria, il primo cinema popolare, in cui il biglietto era di soli cinque centesimi, sui cui ruderi, dietro la Chiesa del Carmine, in epoca fascista sorse l’Astra Cine, che proiettava colossal per famiglie da I dieci comandamenti a La tunica, a Ben Hur e che come altri poi, in piena crisi cinematografica, per sopravvivere, si dedicò ai film a luci rosse. C’era poi un Cinema Italia molto frequentato all’Olivuzza, in via Marco Polo, ma un Cinema Arena Italia ci sarebbe stato anche in via Pindemonte, vicino all’attuale Marconi. In anni più recenti si possono ricordare il Coren in via Cipressi, il Manzella in via Montalto, il Cinema Arena Montegrappa, che in zone limitrofe subiva la concorrenza del Capitol, del Corallo e del Royal, operante fino a poco tempo fa con buoni programmi selezionati. In zone sempre periferiche agivano il Noce, il San Lorenzo, poi Teatro Europa, nell’omonima piazza, il Roma a piazza S. Anna, là dove prima c’era stato un cinema parrocchiale Sant’Anna o ancora il Cinema Gardenia in corso Calatafimi e l’Arena Tukory nello stesso corso, che apparteneva al Comune.

Davanti all’Ospedale dei Bambini c’era anche un’Arena Odeon, nome costante nei cinema e nei teatri italiani, diversa da quella in anni vicini a noi di Mondello. Le Arene, comunque, meriterebbero un capitolo a parte, e, prima fra tutte, la Trianon: ma questa è un’altra storia.

Sempre fino ai primi anni ’60 “un cinema di quartiere”, di cui si sono perse le tracce, funzionava per pochi al centro di un mercato rionale, in via La Marmora, in un edificio squallido degli anni Cinquanta, il Cinema Apollo, che “raccoglieva studenti della zona, proiettava film di quarta visione o quasi, anche di mattina in una sala piccola, nata già vecchia e polverosa”, secondo quanto racconta Gianmauro Costa nel suo primo romanzo Yesterday (Sellerio, Palermo, 2001, p. 29 e p. 31). Si può dire che ogni asse della raggiera di espansione della topografia palermitana era contrassegnata dalla presenza di una sala cinematografica. Ma anche nel cen- tro storico, nella zona classica di concentrazione dei locali di spettacolo via MaquedaQuattro Canti- si possono segnalare sale, per così dire, minori, ma di particolare interesse. Mi ha sempre stimolato, per esempio, l’idea di poter pene- trare all’interno del palazzo di Rudinì, in via Maqueda, dove prima era sorto il Cinematografo Excelsior (al n. 200), per poter vedere i resti, che ancor oggi esistono all’interno del palazzo, del Cinema Bomboniera, la cui insegna era visibile ancora negli anni Sessanta. E sempre in questa zona, nel primo ventennio del secolo scorso, erano noti il Cinema Palermo in corso Vittorio Emanuele, proprio nel vano d’accesso alla scalinata che porta a piazza Pretoria, che qualche volte offriva anche l’avant-spettacolo e il Maqueda, di fronte alla via Bandiera, in bello stile liberty, distrutto dalle bombe, la cui area è ancora oggi oggetto di contenzioso tra il Comune e la Curia e in fondo alla stessa strada, di fronte all’Arco di Cutò, dal 1925, il Cinema Orfeo, nell’area che prima aveva visto operare il cine-teatro Panormus. L’Orfeo era la delizia di guardoni e di studenti, che avevano “fatto Sicilia”, come allora si diceva, che si rintanavano al buio per paura di essere sor- presi e per godere al contempo delle immagini osé dei film porno, in cui la sala era ed è ancor oggi specializzata.

In anni ancora più recenti poi, il Lubitsch, nato a Bonagia con buone velleità culturali da cinema d’essai, ha avuto un passato di belle stagioni operative, ma proprio per la sua posizione defilata rispetto ai cuori della città, ha finito con il doversi arrendere e chiudere in attesa di tempi migliori. Se verranno. Il Cinema, purtroppo, rientra nel pacchetto di grandi trasformazioni cui va incontro la società contemporanea.

Ma, per chiudere questa breve
nota, dei cinema di un tempo mi
piace ricordare gli affascinanti
addobbi in cartone, che ricoprivano
gli ingressi e spesso le zone limitrofe degli edifici, modificando la
scena urbana, in occasione del lancio di qualche film di rilievo, come
avvenne al Supercinema nell’aprile
del 1926 per il lancio di Maciste all’Inferno, il cui addobbo si dovette alla avanguardistica creatività di Paolo Bevilacqua o quelli del Cinema Massimo per Shanghai, per Casinò de Paris, per Giovanna d’Arco e Il principe e il povero, secondo quanto è possibile ammirare nelle preziose foto dell’Archivio di Dante Cappellani. Gli ingressi e le facciate così rivestite erano un’esplosione di fantasia, che, pur a volte nel loro kitsch, aprivano il sorriso in chi li ammirava, così come i graziosi gadget, che andavano a ruba alle prime e di cui oggi si è perso il ricordo, tranne in chi preziosamente li colleziona. I giovani non ne hanno alcuna memoria.

NOTE DELL’AUTORE

Soggetto: Rosario Di Piede, ultimo proiezionista del Cinema Archimede, torna alla sala cinematografica dopo 22 anni dalla chiusura . Tra le rovine e i  detriti ritrova alcuni suoi oggetti personali e  prova a raccontare come era il cinema Archimede allora. Nel frattempo, il suo racconto, assai semplice, viene invaso da un lato dalle reminiscenze visive e sonore dei film del passato e dall’altro lato,  viene sostenuto dai vari ricordi degli abitanti del Borgo. Contemporaneamente, da una visuale diversa e tecnica, alcuni operatori della Cinemeccanica di Milano , sede  di Palermo, raccontano i fasti delle numerose sale cinematografiche della città e della Provincia, grazie alla loro attività (interventi tecnici di riparazione ai vari livelli audio-visivi, sino alla vendita delle poltrone), sostenevano attivamente l’avanzamento del cinema nella vita pubblica dei piccoli e grandi centri urbani.

SCHEDA

TITOLO: Archimede, breve e lacunosa storia di una sala cinematografica al Borgo Vecchio di Palermo

DI: Nosrat Panahi Nejad

 VOCE FUORI CAMPO: Michele Perriera

CON: Rosario Di Piede, ultimo proiezionista del cinema Archimede; Salvatore Graniello, custode dell’ex cinema; Danilo Flachi, titolare della ditta Cinemeccanica  di Milano a Palermo; Maria La Licata, segretaria della Cinemeccanica; Ettore Garofano Liberale, tecnico della Cinemeccanica; alcuni abitanti del quartiere Borgo Vecchio.

FOTOGRAFIA AUDIO MONTAGGIO: Nosrat Panahi Nejad

DURATA: 42 minuti

PRODUZIONE: Luisa Mazzei Nosrat Panahi Nejad . Palermo 2009