Perriera, il film di una vita

07/06/2006

Una sedia bianca impagliata e un passepartout di legno marrone in riva al mare. Un interno borghese affollato di oggetti e un corridoio pieno di libri e di mille oggetti colorati che annunciano la presenza di una bambina che occhieggia con curiosità e stupore. Un viale alberato e una cabina fotografica. Il vento che soffia leggero spingendo una striscia di foto di lui che guarda «con stupore e pietà» e insieme con il candore della bambina.
(segue dalla prima di cronaca) Domani alle 21 alla Biblioteca comunale si presenta il film “Michele Perriera. Frammenti di un romanzo d’ amore” di Nosrat Panahi Nejad. Pubblichiamo uno stralcio del testo scritto per la pubblicazione che accompagna il film. Gli esterni: Palermo, la riva del mare assediata di case, la strada alberata, un fiume. L’ interno: il salotto, in un angolo il catafalco di un violoncello. In un gioco serrato di esterni e interni – «fendendo/cucendo spazi» -c’ è lui, l’ epifania del Terzo che le sue pagine hanno sempre evocato con il suo passo sghembo, strascicato, con il suo sguardo obliquo, con il suo andare e venire: il movimento dell’ ansia, della riflessione rabbiosa, del lutto. Michele Perriera legge davanti alla camera volante-che va-e-viene di Nosrat Panahi Nejad frammenti del suo Romanzo d’ amore. Racconta la sua biografia e dice che è liberazione dal lutto, ritorno della felicità, presenza affettuosa della vergogna; senso di colpa di esistere nel male, del male, della sconfitta, ma visione di un’ utopia dell’ essere, dell’ esserci come messaggero di consapevolezza, di luttuosa consapevolezza e di gioiosa aspettazione. Racconta la sua missione teatrale, del fondamento rituale del teatro, e del risalto della sua misura morale, oggi sempre più affievolita se non cancellata. Il teatro – dice – ha perso la sua tensione ascetica tacendo delle attese dell’ azione. Dice delle colpe del mondo «come fossero le mie stelle» e della necessità di conoscere ciò che può dirsi Dio anche se Dio non esiste, di conoscere la perfezione anche se la perfezione non esiste. Dà così testimonianza del suo “daimon”, della sua indomabile resistenza etica. Racconta il ricordo di sé da bambino: «da bambino facevo il teatro da solo~». Mi piacerebbe sapere trascrivere questo «da bambino» mostrandone l’ aura sonora labiale e incrinata che l’ attornia e da esso promana. «Da bambino facevo teatro da solo, chiuso nella mia stanza, o acquattato in un sottoscala o nascosto fra le fronde del Monte Pellegrino. I miei personaggi si chiamavano Mariniri e Tinì, la scena era l’ intero mio cervello, la natura e gli oggetti costituivano il fondale. Uno dei miei personaggi ero io e mi mettevo sempre alle mie spalle. Vedevo tutto intorno un assoluto, vuoto silenzio. Il pubblico immaginario mi guardava dall’ alto». Da bambino imitava il fratello, il grande violoncellista Giovanni («mi manca il fiato di mio fratello. Ci manca il fiato dei fratelli») ma il suo strumento era un bastone e un cucchiaio di legno. Da bambino sulla riva del mare aspettava il richiamo della madre: «andiamo a mangiaaare», diceva mia madre. Da bambino. Palermo – dice Perriera – come gineceo del mondo, pur sapendo che è una periferia. La lontananza dal centro aguzza lo sguardo ma svela modalità dell’ essere e dell’ esserci che il centro ha cancellato. La dialettica periferia-centro che da sempre ha abitato la scrittura di Perriera svela una strategia per rimemorare ciò che il centro, il progresso ha superato, cancellato, rimosso. Se il centro è la punta avanzata della storia, la periferia non è solo la sua distanza ma un suo protocollo. Il protocollo della violenza della storia, dei suoi caduti che non sono morti perché solo arretrati sulla freccia vettoriale del tempo, ma perché testimoni di altre possibilità mancate dalla velocità dell’ avanzata del moderno. Nel suo posizionamento su Palermo – soggetto della sua trilogia: A presto, Delirium cordis, Finirà questa malia? – v’ è tutta la consapevolezza che la periferia reca in sé le tracce di una resistenza al moderno, al faustismo del moderno senza per questo essere antimoderna, anzi, scavalcando il moderno in nome della sua sostenibilità etica e civile. Questa dialettica periferia-centro accomuna Perriera alla grande istanza morale del pensiero critico francofortese e rende palese l’ interrogativo che grava sulla sua poetica: fino a quando potremo vivere sulle spalle dei morti senza averli risarciti? Nosrat con la sua camera entra ed esce dal campo di Perriera, lo inquadra con il passepartout, lo mette tra virgolette, lo segue: segue questo Terzo che Perriera interpreta di sé tra i platani di via della libertà, la cabina fotografica, il mare dell’ Arenella. Nosrat fende e cuce spazi, immagini, narrazioni: il racconto di Perriera, il racconto di testimoni (Antonio, Gabriello, Gabriella, me stesso) «nel desiderio – scrive – di trovare un testo che restituisca brani di contenuto storico-affettivo della città ed insieme il tentativo di captare come un microfono soggettivo un rumore, un monologo un vocio disperso dal vento nelle pieghe non lontane del tempo» mentre si sentono le voci di Kadigia, di Gabriella, di Michele interpreti dello sconvolgente Signor X” su un basso continuo, un Om elettronico. «Non senti niente?», chiede puntiglioso Michele «Non sento niente di niente», risponde avvolta dall’ eco Gabriella «Cresce, cresce. Sono uccelli. A quest’ ora» «Sarà vento» (e come è scivolata quella “e” di Gabriella. Un vortice per scomparire.) Perriera in piedi con le mani intrecciate sente Bach, una suite per violoncello che suo fratello suonava in modo superbo. Di Bach, Perriera – come suo fratello – coglie la discorsività e la passionalità. La musica come una treccia ininterrotta dell’ Essere intessuta dalle voci del mondo e che da Dio ritorna a Dio. La sapienza contrappuntistica delle voci è la cifra segreta di Perriera: lì risalta la sua vocazione per un teatro che sappia sprigionare la musica della lingua. Per questo Il Signor X – prodotto e trasmesso coraggiosamente dalla Rai-Sicilia trent’ anni addietro- è una sua opera chiave perché esalta la sua originalissima e ammaliante Sprachmusik. Sull’ arenile avanza faticosamente il Terzo: ha in testa un panama bianco. Si siede, stende il braccio sinistro sullo schienale. Guarda il mare. Il luogo dell’ epifania della grande madre. L’ orizzonte è vuoto. Nessun pallido e soave psicagogo laggiù a indicargli un’ immensità piena di promesse. Singhiozza. Un po’ d’ allegria, ragazzi, dice il Terzo-Perriera. Torna a casa, torna tra le pagine, mentre il vento fuori soffia sulla sua foto per ricordarci la necessità dello stupore e della pietà in quest’ epoca che non sembra avere più la forza per proiettare pallidi e soavi psicagoghi sull’ orizzonte delle nostre aspettative sempre più danneggiate. Ma lo stupore e la pietà, testimonia Perriera nel corso di una vita senza risparmio, possono aprirci alla gioiosa aspettazione del principio-speranza proprio perché si è senza speranza. «Sono stormi di uccelli. Volano di notte. Che furbacchioni ~». «Sarà vento».

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