CALACIURA E I GIORNALI L’ ULTIMA LEZIONE

29/01/2010

Anselmo Calaciura, giornalista in esilio, smagrito, con baffi e pizzo sbiancati, abito di velluto verde a coste piccole, si aggira sotto l’ enorme carrubo della sua casa a Pezzingoli sopra Monreale, l’ eremo degli ultimi ventitré anni. «Ha trecento anni il carrubo, era più grande», dice al suo assente-presente intervistatore che è Nosrat Panahi Nejad, l’ iraniano che con i suoi film è diventato il guardiano silenzioso della nostra memoria. È il 19 gennaio 2009, giorno di insediamento di Obama alla Casa Bianca. Anselmo ha 75 anni. «Ma la neve, perché qui nevica – continua Anselmo – lo ha spezzato. E lui si china sul gelso e ne fa una vittima sovrastandolo». Un piccolo dramma della natura, in una fazzolettata di terra, una metafora dello slittamento aggressivo del mondo. C’ è ombra e silenzio sotto il carrubo e attorno. Anselmo – gigione – la mano in tasca, quasi accenna un passo di danza sotto il ramo possente e guarda sornione verso l’ obiettivo. Sembra un quadro di Chagall. Per la malattia, il suo spirito un po’ guascone si è infragilito. Ora fa il saggio sedendosi compostamente sotto il carrubo e inizia a narrare. Non mi meraviglierei se improvvisamente, come nei film di Allen, si mettesse addosso Tallis e zucchetto per intessere la memoria dello shetl, della cittadella sua e di altri come lui, che è stato ed è il giornalismo: prima sognato, poi vissuto, poi contrastato dai soliti ufficialetti di complemento, e poi rimosso e poi di nuovo sognato. Lo shetl è la parola che narra. Ma questa parola, dice Anselmo, sigaretta in bocca, che parola è, se non è ispessita dalla metafora. Non basta la parola in sé che descrive, ci vuol altro per affrontare, per raccontare la realtà. Bisogna oltrepassarla e la si oltrepassa con la forza della metafora. «Ciò che più mi ha interessato del giornalismo – dice Anselmo smuovendo leggermente nel suo tic preferito la spalla destra – non è la cronaca ma il commento». Guardandolo- nel video che ha girato Nosrat, materiale per un film a venire e che si proietta stasera alla Rai – ho la netta sensazione che si dondoli, mentre dice questa grande verità sapienziale. Non la cronaca ma il commento che è cosa diversa dalla solfa “i fatti separati dalle opinioni”. Il commento è dentro il fatto e il fatto ha consistenza proprio attraverso il commento che ne svela la realtà. “Le commentaire”, la glossa a margine per far capire che la realtà non è quella che pretende di essere. È un’ altra cosa. Bucatela con la metafora. Arte difficile. Ce lo ha insegnato Borges salmodiando «la rosa è una rosa è una rosa». Di quella lezione a Palermo, nel 1984, Anselmo, ne sono sicuro, ne sarà stato felice. «Vedi – dice al suo interlocutore assente-presente – ho iniziato a scrivere sul giornale a quattordici anni recensendo Vittorini. Era il Quarantotto. Il mio fu un approccio del tutto anomalo». Ma quell’ approccio lo ha segnato, quando, finiti gli studi si poté dedicare al giornalismo. La sua vocazione metaforica, che era un modo per arricchire il giornalismo e la sua capacità di narrare, lo trasformò negli anni in un temuto caposervizio dello spettacolo al Giornale di Sicilia. Ne ricordo qualcosa io che giovane dottorino lo ebbi come caposervizio. E poi come direttore a L’ Ora. Il giornalismo come controllo linguistico e come commento, come letteratura. In questa intervista sotto il carrubo, Anselmo, nel suo ritiro, dice una cosa in netta controtendenza. I giornali non possono inseguire la televisione che ti dà la notizia con la sua immagine e il suo rumore e presto anche con il suo odore;i giornali debbono commentare la realtà, non essere soltanto la cronaca fedele del potere. Il silenzio del carrubo viene cancellato dallo stridio meccanico delle rotative. Girano le rotative e affiorano titoli di giornali, lunghi articoli di Anselmo sul terremoto del Belice, il maxi processo, la mattanza mafiosa. Altro stacco. Nel giardino si aggira Giosuè, figlio di Anselmo, che legge dal suo “Malacarne” il ritratto violento della realtà che il padre vuole commentare. E Anselmo sta seduto, sempre più Zio Vanja,e guarda verso l’ alto, mentre il figlio legge. Ma il figlio legge dopo che il padre

è morto. La sfasatura temporale fa di Giosuè il double del padre e la realtà che Giosuè legge è commentata dall’ assenza del padre. Sotto il carrubo Anselmo insiste sulla necessità che la mafia non venga letta come un racconto di Puzo; ha insofferenza per i mafiologi e tesse l’ elogio di Mario Francese. Entra in casa. In un tempo largo scandito dalle accensioni delle lucie dal cullante ritmo di Satie, padre e figlio, sfasati nel tempo si intrecciano negli stessi luoghi, negli stessi gesti. Nosrat li segue come un’ ombra. La vita che ricorda con commozione scorre parallela ad una vita ad un gesto che non c’ è più. Anselmo è morto a settantacinque anni, il 17 luglio 2009.

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