Cordone Avulso
di
Nosrat Panahi Nejad
di
Ando Giraldi
Cine studio Obraz Milano 1979
Molti diranno che questa di Nosrat Panahi Nejad non è una mostra fotografica, prescindendo da ogni parere estetico, o che quantomeno non si tratta di fotografia “pura”. Ed avremo così la prova del contrarioç queste sono opere di fotografia “pura” o meglio ancora: di fotografia purificata dall’intenzione poetica dell’Autore per quel che riguarda i significati della ricerca ; purificata poi una seconda volta con le forbici, i colori e gli incastri per quel che riguarda la forma che mostrano. “Impura”, nel senso di grezzo, di minerale dal quale si deve ancora estrarre quanto più utile, è la fotografia così come si forma nella macchina e poi si sviluppa e stampa nel solito modo: centoquarant’anni d’uso e abuso di questo prodotto esclusivo della macchina, specialmente sotto forma di “istantanea”, hanno spremutola esso tutto quello che si poteva ottenere. E’ inutile mentire e illudersi, e nuoce prima di tutto alla fotografia medesima: oggi non si fotografa più ma si rifotografa e si moltiplicano ossessivamente immagini già fatte e rifatte migliaia di volte. Fotografia “pura”, nella norma, significa nata con le rughe, che di nuovo da dire non puo’ nulla, che si ripete fino al grottesco. Così la macchina fotografica, come una pala meccanica, riesce ad estrarre dalla natura, dal “vivo” solo del grezzo reso tale dall’uso. E’ vero, molti continuano a firmare queste palate di realtà stravista come autori: ma oramai si è giunti ad un brutto bivio: quello che a destra conduce alla paranoia, a manca alla malafede. Nosrat Panahi Nejad se ne rende concluso e, come lui stesso dice, comincia a fotografare quando la macchina finisce. Parte, per la sua ricerca, da dove si ferma la macchina e non puo’ andare più avanti . Perdonateci la troppo facile metafora: come succede in certe gite in montagna, con un’altra macchina, l’automobile, quando si vuole salire più in alto. E bisogna faticare, e bisogna rischiare sul serio. Cosa cerca “più in altro” questo ragazzo iraniano di 25 anni? Risponde alla domanda con molta semplicità e in modo “stonato” direbbe qualcuno che crede ad una sola realtà contingente. Cerca poesia come negazione del “fisico” e dello “storico”: i due ingredienti che impastati insieme ci danno la zuppa del “momento che attraversiamo”. Il quale “momento che attraversiamo”. Il quale “momento” a Nosrat ripugna e con la poesia emigra nel fantastico. Ha scelto la fotografia per fare poesia proprio perché – quella “grezza”, come l’abbiamo definita – più di ogni altro segno è oggi delegata nella cultura in cui siamo sommersi, a rappresentare il “fisico”, lo “storico” e la loro sintesi nel “momento”. Distruggendo questo segno fotografico non si distrugge, o no! La realtà: ma la si nega appunto, la si rimuove dalla coscienza. Per lasciare un vuoto contemplativo? Questo giovane fotografo iraniano dice di no: per ritornare (ed è questo il senso del titolo della mostra “Il cordone avulso”) al momento in cui si nasce e, recidendolo dal grembo materno, si prova
– dice Nosrat – il primo smarrimento ma anche la prima gioia di libertà. E il primo vagito non dice forse questo? Questa gioia di libertà preoccupata Nosrat riscopre usando il mezzo fotografico per “staccarsi” dall’arte: ed anche questo suo motivo è molto valido. L’opera d’arte intesa nel modo più ampio, è per noi tutti, e per l’artista specialmente, un grembo che un po’ ci nutre ma anche soffoca. La sua serie dedicata alle fotografie di W. F. Golden, un racconto assai complicato con numerose allusioni, si legge come un metodo di riproduzione-distruzione di un’opera altrui, per sostituirsi alla medesima quanto basta per meglio comprenderla, assorbirla in se stessi, lasciare un grezzo di questo assorbimento fotografico immediato, poi partire da questo grezzo per una personale ricerca. Restituendo però alla tua totalità l’opera riprodotta-distrutta con il proprio mezzo e la personale forma poetica. Venuto in Italia per studiare cinema (e trovando chiusa senza preavviso la scuola di Cinecittà!…) Nosrat Panahi Nejad si occupa della fotografia e ne usa i mezzi per fare, come si è detto, poesia negativa. Dobbiamo, alla fine discorso troppo breve, ce ne rendiamo conto che va stretto, strettissimo al fotografo iraniano; usare e accreditargli questa parola negativa. Che essa risulti stracarica di significati tutt’altro che “reazionari”, anzi! Che il negativo rappresenti oggi la sola ribellione possibile, sono sempre più numerosi quello che lo comprendono. Da chi legge la “Dialettica” di Adorno a chi il “Male”. Un salto immenso? Un filo palpabile appena? E’ vero, ma quante cose sono nate così, come segni più o meno evidenti. Che uno di questi segni sia stato tracciato da un giovane fotografo è per noi importante. E’ per noi provocante e per quanto possiamo pretendiamo di star dentro a questa provocazione.