L’esistenza nelle mani

01/04/2004

C’ è un iraniano a Palermo. Si chiama Nosrat Panahi Nejad. Molti lo conoscono e lo apprezzano per la sua attività di artista e operatore culturale. Ma certamente molti altri ignorano che un figlio dell’ Oriente islamico lavora qui da noi, con noi, a cercare di suturare (magari senza neanche proporselo) una ferita culturale che separa due mondi di antica civiltà e che oggi rischia di incancrenirsi. Nejad è nato a Ahwaz nel 1953.
A ventisei anni si è diplomato in fotografia presso l’ Istituto di design di Milano. Poi ha conseguito la laurea in Storia del cinema a Bologna. Nel 1993 è giunto a Palermo, ha collaborato – tra l’ altro – con Mimmo Cuticchio e ha dato vita, insieme alla poetessa Maria Pizzuto, figlia del grande Antonio, ai Quaderni pizzutiani. Questo “periodico quadrimestrale di lettere e arti” ha il merito di aver riproposto all’ attenzione (o alla distrazione, sarebbe meglio dire) dei palermitani la figura di uno scrittore di altissimo profilo, apprezzato e studiato anche all’ estero, ma paradossalmente negletto nella sua città natale, come Antonio Pizzuto. Proprio in questi giorni, alla libreria Broadway, è stata allestita una mostra fotografica di Nejad intitolata La mano della sposa, che in forma più icastica, senza viraggi, in un rigoroso ed elegante bianconero quasi manicheo, può essere apprezzata anche sull’ ultimo numero, fresco di stampa, dei Quaderni pizzutiani. La mano è quanto di più simile vi sia al volto. In questo senso le mani di Nejad sono paragonabili a una galleria di ritratti. Queste mani dunque ci raffigurano e rappresentano come parti che denotano un tutto. Sono «il soggetto meno naturalistico che sia immaginabile» – come scrive Salvatore Tedesco nella sua nota introduttiva – ma al tempo stesso il soggetto più umano che sia immaginabile. Niente ci dà il senso della nostra umanità più delle mani. Neanche lo sguardo ha questo potere fatidico. Forse perché, dal punto di vista evolutivo, noi siamo in buona sostanza il risultato delle nostre mani. Come se ci fossimo autoprodotti per manipolazione. Se l’ uomo è quindi un manufatto in senso stretto, è facile spiegarsi perché la mano abbia esercitato un tale fascino nella nostra storia. Il palmo della mano è infatti il luogo deputato del destino. In particolare, è la mano sinistra – quella correlata al cuore – a rappresentare la mappa e il palinsesto di una sorte segnata nella nostra stessa carne. La mano sinistra è pure quella che denota la condizione coniugale. L’ anulare inanellato dalla fede – o vera – indica un legame e un rapporto di fiducia o di speranza che unisce passato e futuro. La mano è dunque racconto, vaticinio, ma anche promessa e contratto. Le mani si stringono per saluto e per accordo. Stabiliscono un patto. Con le mani si scrive e sottoscrive. E la mano ovviamente si legge. L’ arte della chiromanzia, pregna di zingaresche fascinazioni, attribuisce alle mani uno statuto magico che è arcano e al tempo stesso palese. Che va decriptato, ma che ci appare con immediata evidenza. Le mani sono tra le prime cose che osserviamo (e indaghiamo) delle persone. Come gli occhi, sono specchio dell’ anima. Epifanie del profondo. Esse ci sembrano esprimere l’ intima natura della gente con cui entriamo in contatto. A mani aggraziate facciamo corrispondere anime gentili. La stretta di mano è il primo avviso di un temperamento che ci si rivela e a cui ci accostiamo. Mani robuste ci rassicurano sulla proba laboriosità delle persone. Mani troppo accurate ci fanno invece diffidare. E forse in tutto questo c’ è un pregiudizio o una superstizione. Ma

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sono preconcetti tenaci e antichi di cui non sappiamo fare a meno. Queste fotografie di Nejad hanno un che di fantasmatico. Le mani emergono dal buio come ectoplasmi. Scorporate, fluttuanti, enigmatiche, sembrano galleggiare sulle tenebre come ninfee. Oppure ricordano farfalle che cercano di sfuggire a una profonda notte che le circonda e che forse vorrebbe ghermirle. Sono mani che si moltiplicano come per una sorta di partenogenesi. E si deformano, quasi che un’ onirica artrosi le dilatasse e distorcesse. Sono mani torturate, come da una pena o da una devozione. Le dita dunque si allungano, forse per protendersi e scrutare tattilmente l’ atra superficie che si estende tutt’ intorno, oppure per sfiorare altre dita di mani sorelle. Non c’ è mai congiunzione, però. Ogni mano è una specie di monade, inarrivabile, intoccabile, incomunicabile. Sembrano mani di ciechi. Mani cieche. Vi sono metamorfosi teratologiche. Composizioni floreali. Quasi un’ ikebana carnale. Simmetrie e disarmonie. Il racconto di una vita, insomma. Immagini da un matrimonio, si potrebbe dire parafrasando Bergman. Queste mani diafane ci suggeriscono pure l’ immagine surreale di alghe scompigliate dalle correnti in abissi irraggiungibili di solitudine e di silenzio. Mani vedove. In cerca di uno sposo che attende o si nasconde e sottrae dall’ altra parte della notte. Hanno un forte potere evocativo queste mani di Nejad. Una proteiforme capacità simbolica che inquieta pur avendo anche un effetto ipnotico. Ci agita soprattutto questo loro vano protendersi. Questo cercare il contatto. Questo rimando al sonnambulismo della nostra condizione smarrita. Ed è difficile resistere alla suggestione di interpretare queste mani come il tentativo di esprimere il disagio dell’ incomunicabilità. Forse a un più vasto sposalizio di culture allude il lucore stellare di queste bianche ombre cinesi. L’ altro è appena al di là della nera cortina, ma è difficile che le mani s’ incontrino e si stringano.

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