Quaderni Pizzutiani – 1

 ANTONIO PIZZUTO

 

Le «larve» di un non contemporaneo

di Carmelo Bene

Omaggio ad Antonio Pizzuto

         Per chi non lo conosca, Antonio Pizzuto è nato nel 1893, in maggio, da una grande famiglia palermitana di tradizioni umanistiche e letterarie. Il nonno, Ugo Antonio Amico, fu latinista apprezzato anche dal Carducci, la madre, Maria Amico,  scrisse poesie. Per lei il Carducci compose una breve lirica. Pizzuto si laureò giovanissimo in Giurisprudenza con una tesi di economia e statistica, quindi in Filosofia. Entrato nella Pubblica Sicurezza arrivò al grado di Questore e ricoprì la carica di Presidente della commissione internazionale di polizia criminale. Si dimise alcuni anni dopo. La passione per la letteratura: (grandissimo traduttore di classici latini e greci, Cicerone, Platone); si dedicò moltissimo alla filosofia, tradusse Kant, lesse in originale le opere di Proust ma soprattutto di Joyce. Dopo anni di lavoro nel’56 terminava il suo primo libro, il meno joyciano, diciamo, dove c’è ancora una traccia almeno delle liaisons del racconto di questo nome  Rosina, Signorina Rosina, che può essere un asino, poi la gatta … Ricorda  un po’, il protagonista Bibi di Signorina Rosina  l’agrimensore e geometra kafkiano. E quindi , sempre tramite Joyce , prima Ravenna, poi  Si riparano bambole . Conobbe profondamente anche la musica. Scrisse anche altri romanzi. Io, ventitreenne, ebbi a conoscere Pizzuto tramite l’amico ora scomparso, Roberto Lerici, che ne editò tra la fine degli anni Cinquanta

i primissimi degli anni Sessanta tutte le opere fino a Paginette. Invito chi non ha letto Pizzuto a leggerlo. Pizzuto e le « larve» di Signorina Rosina  sono davvero quanto di grande ha ed è Palermo. E non lo sa. Proprio nella sua postfazione a Paginette, l’ultimo dei suoi libri , dove la scrittura fa i conti con la scrittura, «essenza – cito Pizzuto – delle mie pagine, loro frutto e fonte a un tempo, è un antistoricismo assoluto. La storia è un’esigenza a priori, categorica, inattuabile nella realtà storiografica, perché è una ricerca senza fine che nessun risultato può soddisfare». Da qualsiasi dato, lo sappiamo bene, scaturiscono incessantemente problemi nuovi.

Il fatto, dunque, ci somiglia – Carmelo Bene e Antonio Pizzuto – ci assomiglia proprio la sfiducia nel fatto, aristotelica d’altra parte, già presagita. «Il fatto dunque è un’astrazione continuamente trascesa dal nostro bisogno di storia, che può concepirsi come una ricerca della persona nella persona, della vita nella vita: una narrazione insomma che ne sarebbe l’espressione e che io distinguo dal racconto, ma non ne è un’evoluzione dialettica, perché narrare non è l’opposto di raccontare». E qui attenti. «Raccontare è proporsi di rappresentare un’azione. Cioè uno svolgimento di fatti, ma anziché rappresentarli il racconto, in ultima analisi, li documenta. Personaggi, eventi, dati psicologici, tutto si va pietrificando via via che lo si racconta. La narrazione, vince l’assurdo perché la narrazione è invece lo storicismo, la narrazione è storicistica. La narrazione, ripeto, vince l’assurdo di tradurre l’azione in rappresentazioni perché riconosce che il fatto è un’astrazione; se i personaggi raccontati sono dei documenti, i personaggi narrati sono dei testimoni. La rappresentazione non è più offerta ab extra come una planimetria sottoposta al lettore, ma scaturisce intuitivamente da ciò che egli vi legge con una compartecipazione attiva, direbbe un tomista, in cointuizione. La narrazione, quella storicistica cioè, diventa così sostanza-forma, cioè stile, non più analisi ma sintesi trascendentale, in cui l’azione riprende vita perché la narrazione non ne è più il ritratto bensì una risonanza». Ripeto, mi unisce proprio questo a Pizzuto. Questa diffidenza, questo astio, questo disprezzo congenito per l’arte del grande Questore e Presidente di polizia criminale internazionale, misconosciuto ingiustamente. Ci somigliamo nell’ antistoricismo, nella sfiducia dei fatti analizzabili. Un fatto è una sintesi giustamente trascendentale, che trascende il fatto, così come – ha ragione Derrida – la stampa riferita, la sciagurata libertà di stampa, non può riferire i fatti, non informa sui o dei fatti, ma informa invece i fatti, (non se l’abbia a male la stampa perché tutti i grandi giornalisti e scrittori lo sanno benissimo). Quindi, il Questore e Presidente di questo comitato di polizia criminale internazionale, eruditissimo ma profondamente ispirato incontra quello che vedeva nella magistratura d’allora, nelle democrazie (lo dice anche il Guicciardini, lo storico non Roberto, l’antimachiavelli, «mai a Firenze tirannia nocque tanto quanto le sue repubbliche»). Tutta la sua esperienza di Questore lo portò non tanto a una sfiducia (non è uno sfiduciato Pizzuto, è un grande poeta en prose; non racconta mai, non narra, non usa il passato remoto, e se ne vanta, usa la forma imperfetta o il presente storico). Ma tutto ciò è legato al fatto che egli intravedeva nella a volte sciaguratamente eroica magistratura ( e la Sicilia ne sa particolarmente qualcosa nelle stragi, nella committenza di stragi di Stato) una sorta  di divinità perdente in partenza, un po’ come la storia e lo storicismo sui fatti e sui misfatti, perché non ha più l’autorità, l’autorità anche – perdonatemelo – vanitosa. Anche nell’eroismo di questa magistratura, Pizzuto vedeva il giudicare, il giudizio, non quello kantiano delle categorie, mal proprio  il giudizio di assolvere o condannare, a mai di penetrare la vita, cioè l’uomo. Per questo si dimise, e per questo si dimise nell’oblio odierno come scrittore, scrivendo, scrivendo scrittura. Non ci è contemporaneo, come io non vi sono e non mi sono contemporaneo, Signorina Rosina è appunto tutto ciò che è “larva”, è questo rimemorare incantevole delle cose che non sono.*Questo intervento di C. Bene, seguito dalla lettura di brani tratti da Signorina Rosina, introduceva il recital che ha inaugurato il programma di Palermo di Scena, luglio 1995, a villa Trabia, in supplemento di La terra vista dalla luna, n, 1 gen.- febb. 1996.