La riparazione d’ Orlando

 

La riparazione d’ Orlando

Ordine visivo della riflessione fotografica sul teatro dei pupi si divide nelle seguenti mini sequenze e consta complessivamente 70 immagini:

a) Teatro dei pupi

1- Laboratorio

2- riparazione di Orlando

3- Prima dello spettacolo

4- Dopo lo spettacolo: scena, retroscena, pubblico

5- Dopo lo spettacolo

6- Close up

B) Cuntu

1- Gestualità di una voce

Testi

 Ando Gilardi

 Claudio Meldolesi

La sequenza Riparazione d’Orlando è stata eposta a Bologna, sala Silensium, 1992;

a Milan, Kodak Cultura, Diaframma, 1993; a Palremo, Taetro Biondo, 1995,

a Comiso, all’interno del “Settembre casmeneo”, 1995, in occasione della presentazione del volume “Il guerrin meschino” di Gesualdo Bufalino.

silenzioso inventario

di

Ando Gilardi

Copyright © Nosrat Panahi Nejad "Riparazione d'Orlando" Palermo, 1991

 

La serie vera della Riparazione di Orlando* del fotografo iraniano Nosrat Panahi Nejad, è ben più numerosa di quello che viene concesso dalla avarizia delle pareti di una mostra: il progetto interminabile, come quello della Biblioteca di Babele, è parte essenziale del suo significato. Perché Orlando si rompe da sempre e per sempre: e più lo aggiusti peggio si rompe. Il conto Paladino nipote di re Carlomagno, se non fosse morto in quel posto dall’indimenticabile nome di Roncisvalle, non sarebbe stato nessuno. Ma per Roncisvalle, come per Orlando. Del resto, sitroivano facilmente le rime in tutte le lingue europee e quasi sempre la fama imperitura degli eroi è dovuta alla pigrizia dei poeti.

Copyright © Nosrat Panahi Nejad "Riparazione d'Orlando" Palermo, 1991La prima Canzone di Orlando di u tizio qualunque e senza storia, che doveva titolo cavallo e armatura solo allo zio, ha fatto la più grandiosa figura epica del Medioevo, Prlando appare a sorpresa nell’anonimo poema di Oxfrod un guerriero giovane d’anni, di indiscusso valore, di forza quasi svrumane per cui quasi invulnerabile. Alla invidia cristiana per i miti di Grecia, era necessario un Achille battezzato: paralelo francamente ridicolo. Tuttavia quest’uomo tutto di un pezzo, implacabile guerrafondaio, a Roncisvalle si rompe subito dopo una fanfaronata: potrebbe suonando il corno avvisare subito Carlomagno, ma non vuole dare ascolto a Turpino che a ciò lo consiglia, perché alla sua mentalità di ottuso guerriero la precauzione pare un atto di debolezza: lui e i suoi pari sono davanti al nemico e non hanno che solo dovere: perire da prodi acciocché “mala canzone non si possa cantare di loro”.

Questa prima rottura di Orlando viene riparata per l’uso di un’altra canzone nordica, Karlomagnussaga; la seconda rottura trova nuovo faticoso restauro per il germanico Karl; la terza rottura per la sempre tedesca Karlemeinet; la quarta è per l’uso in Ruolandes Liet di Konrad che accentua il carattere religiosa del personaggio rendendolo definitivamente ridicolo e che sposta le ultime simpatie residue dal “campione di Dio” alla figura demoniaca di Gano. Dopo questa riparazione negativa Orlando e Gano sono nel repertorio del cristianesimo romanzo come Sigfrido e Hagen nel truce paganesimo teutonico: uno è il cielo senza consistenza palpabile l’altro è la terra: sono Dio e Mifesto il Ribelle, Orlando è sembrare Gano l’essere. Ma ancora come Sigfrido, Orlando si rompe per la ennesima volta; e poi torna a Pellegrinaggio di Carlomagno, in quelle di Aspromonte, nelle cronache della Entrata in Spagna, in quelle di Pamplona, ed eccetera eccetera eccetera.

Copyright © Nosrat Panahi Nejad "Riparazione d'Orlando" Palermo, 1991

E così, di rottura in rottura, passa il Medioevo: fino alla letteratura rinascimentale e barocca: adesso il Rotto per antonomasia lo riparano il Pulci nel Morgante e il Boiardo nello Olando Innamorato. Da questo momento il Paladino diventa uno sciocco borghese: la parodia penosa del magnifico Don Chisciotte, un vanesio che solo a parole si presenta senza macchia e paura: come uomo che non conta i nemici quando deve riparare dei torti, proteggere i deboli, umiliare i prepotenti, purgare la terra da mostri e giaganti e sfidare i più pericolosi incantesimi. Un tipo macchietta alla Verdone che alla mentalità popolare sembra l’equivalente di una eccezionale dabbenaggine per non scrivere coglioneria. L asua ostentata castità e la sua ingenuità nelle cose di amore, lo dispone inevitabilmente a diventare lo zimbello di una Angelica dal cuore spietato, fredda calcolatrice peggiore di una topo model frigida che si nasconde dietro parvenze di celestiale bellezza. Orlando sta davanti a questa vergine da niente sotto il vestito “col cuore rotto e con lo sguardo pio” così che a ripararlo nessuno più avrebbe il coraggio.

Meno l’Ariosto che si impadronisce di un rottame da sfasciacarrozze per la pura scommessa di un genio testardo. Per rimettere insieme i suoi cocci per l’ ultima volta deve però mancare definitivamente di rispetto alla dignità sia pure apparente e residua del Paladino. Ariosto non rispetta più nemmeno le forme: “… Per amor venne di furore e matto/d’uomo che si saggio era stimato prima…” canta cercando di nascondere il riso. L’instabile Ludovico fa di Orlando un idealista terminale, la cui esistenza puramente votata a un ideale patetico ha reso inetto e impreparato ad affrontare la vita comune più facile, al punto da dare i numeri per una ragazzina viziosa disposta a concedersi, con la facilità di chi usa la pillola fin dalla tenera infanzia, a un giovane fragrante di capra . Nel poema di Ariosto la vita di Orlando è come un incubo imbarazzante paragonabile al sogno di chi si vede attraversare una piazza affollata in mutande e calzini poco puliti.

Copyright © Nosrat Panahi Nejad "Riparazione d'Orlando" Palermo, 1991

Da questa rottura totale il Paladino non rinascerebbe mai più se non esistesse quella officina dove si riutilizzano i detriti logorati dalla vecchia cultura borghese per un ultimo consumo possibile: quello sub popolare. Rimesso insieme col fil di ferro Orlando torna a muoversi con rumore di latta nella forma del burattino, del pupo. Non facciamo il torto di crdere che come tale sia ancora preso sul serio da suo pubblico vociante come un serio eroe di Roncisvalle. Se adesso si ritorna a sentirlo nei teatrini è proprio per vederlo rompersi tutte le sere. Come diceva Scoscia: una magra soddisfazione, ma meglio di niente. L’eroe medioevale, il cui valore si fondava sulla indiscussa convinzione di difendere la vera fede, la patria, il diritto e la civiltà in un tempo quando queste parole avevano ancora meno senso reale di adesso, deve pagare ed è giusto che paghi una suggestione che troppo è costata ai poveri di spirito e quel che è peggio ai poveri di tutto.

Ho dovuto scrivere la biografia del Paladino perché senza conoscerla, o ricordarla, non si possono capire bene le fotografie di Nosrat Panahi Nejad che ha fotografato così proprio perché i suoi antenati, a Roncisvalle, hanno rotto Orlando per la prima volta: tenuto conto del fatto il suo silenzioso inventario della ultima eterna riparazione di Orlando è una delle storie più belle che ho visto raccontare con il flash.

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L’arca dei pupazzi

Copyright © Nosrat Panahi Nejad Riparazione d'Orlando, 1992 (10)

di

CLAUDIO MELDOLESI

Per La Critica del “teatro di animazione”.Nel 1959 fu pubblicata a Parigi una storia dei pupazzi (Histoire des marionettes) ancora insuperata; e i suoi autori, Gaston Baty e René Chavance, vollero concluderla spostando il discorso sul fallimento del “teatro normale”. Questa nota è dedicata alle ragioni di tale spostamento.

Dunque Baty e Chavance affermarono che in futuro la scena “normale” si sarebbe degradata , che solo “per caso” avrebbe coinvolto intimamente il pubblico. Per gli uomini e le cose del teatro era “il Diluvio”, una calamità inarrestabile. Alla schiera degli intransigenti non restava che salvare la specie; cioè la memoria di «quello che era stato il miracolo teatrale; il piccolo seme da cui, a tempo debito, forse» sarebbe potuto spuntare qualcosa di nuovo. A chi «far posto nell’arca»? Per il loro passato i pupazzi «meritavano fiducia».

Sei anni dopo un “uomo del mestiere”, Bill Baird, scrisse nell’ultimo capitolo del suo Puppets ( New York): « Il popolo nord-americano, formato da gente venuta da tutto il mondo, ha assorbito nella sua cultura l’eredità del teatro dei pupazzi di molte nazioni». L’America è stata perciò una terra “fortunata” per gli animatori. Poi è venuta la televisione, oltre ad aver fatto aumentare il nostro pubblico, ha accelerato la nostra preparazione, accorciato la durata degli spettacoli e cambiato il nostro centro di interesse».

Per Baird, dunque, l’arca di Baty e Chavance avrebbe dovuto veleggiare verso l’America di tutti. I due intellettuali francesi, potendo, avrebbero invece buttato giù dall’arca il marionettista con la sua TV; per amore delle marionette. Questo conflitto immaginario non è da sottovalutare: che Baiard ci illustri la storia dei pupazzi per arrivare ad esaltare i suoi western televisivi (in stile paulista) non è solo un segno di cronico americanismo. I suoi Puppets, infatti, danno la voce a un’ideologia diffusa: sentenziano:il nostro è un mondo a sé stante: e finché questo mondo girerà, l’animatore non dovrà interrogarsi sulla vita.

Forse nessuno sarebbe oggi in grado di tracciare un panorama della critica teatrale da Riccoboni e D’Amico: il vizio evoluzionistico ci ha come persuasi che tanta critica teatrale sia stata poco influente; in particolare e per intenderci, che Eduardo Boutet si sia formato sulla Lettre di Manzoni. Questo abbaglio ha reso inusuale, ha allontanato da noi la teatrologia delle gazzette medio-ottocentesche, che delle Deputazioni di storia patria, eccetera; i guasti del moderno nominalismo ci sono così apparsi deboli di radici, per cui la semplice disapprovazione avrebbe dovuto eliminarli. Ma non è stato e non è così. “Cento e più anni fa”, la gerarchia dei generi, il culto degli argomenti e la retorica interpretativa, risciacquati nell’acqua sporca del basso romanticismo, crearono un’incolmabile distanza tra cultura e pratica scenica. Gli stessi grandi attori ne fecero le spese, figuriamoci i pupazzi.

Correva allora in tutta Italia un’impetuosa rinascita municipalistica dei burattini e delle marionette. La cultura nazionale si commisurò ad essa con un doppio rifiuto: i pupazzi furono relegati all’ultimo gradino della gerarchia teatrale, come persone di una rappresentativa assolutamente irregolare, e soprattutto furono ignorati perché figli di una creatività anonima, popolare, insensibile ai”valori” dell’Unità d’Italia. Per conservare la memoria delle baracche e dei teatrini non restava che l’attenzione del pubblico medio, un’attenzione a sua volta condizionata. Lo “spettatore col cappello” si dissociò classicamente di fronte al suo oggetto: come “borghese”si affezionò agli spettacoli del “popolino”, paternalisticamente; come “cittadino”, aggiornò il rifiuto espresso dalla cultura dominante, inaugurando una pseudo-memorialistica senza nessi con la realtà dei pupazzi: feticizzando il teatro di animazione in un’area sorridente, fatta di aneddotica locale, di cattiva letteratura, di nostalgia per l’infanzia, di moralismo filisteo, di qualche notiziola tecnica e di un pizzico di erudizione scolastica, il “cittadino” spettatore conquistò una zona franca più per se stesso che per i marionettisti e i burattini; ma i giochi erano fatti, da allora in avanti quella sarebbe stata la “cultura” (sottocultura) dei pupazzi.

Nel 1884 Pietro Coccoluto Ferrigni, firmandosi “Yorik Figlio di Yorik” e, copiando do viziosamente dal Magnin, canonizzò infine l’impostura. E fu La storia dei burattini, una storia eterna, ancor oggi in commercio. Ciò spiega, almeno in parte, perché il libro di Baty e Chavance non è stato tradotto in italiano, mentre il manuale di Baird è stato sontuosamente adottato da Mondadori.

 

I veri animatori di pupazzi sono altra cosa da Ferrigni e compagnia. Il mestiere socialmente martirizzato che esercitano fa di loro l’opposto dei”cittadini”; del resto come si potrebbe comprendre la loro identità ignorando le storie di vita del proletariato e dell’artiginato anarchico? Il discorso che andiamo facendo riguarda solo di riflesso la maggioranza dei burattini e dei marionettisti, ma non per questo è estraneo al loro destino. Infatti, in passato, la mortale ideologia che abbiamo prima ricordato si è dimostrata più forte di ogni resistenza al punto che , in materia di animazione, gli spettacoli più creativi, le memorabili pagine della letteratura romantica e la venerazione dei maestri della regia non hanno minimamente scalfito la sua logica.

Ogni ideologia, si sa, corrisponde a una base materiale; la base materiale dell’ideologia in questione risiedeva, come risiede, in una particolare necessità di sublimazione: sorridendo sui pupazzi, il “cittadino” intendeva mascherare il suo oggettivo senso di inutilità; di conseguenza, ai burattini egli consentiva solo una vita di genere (genere = tecnica) e uno spazio di pura soggezione. Di qui la definizione di un’essenza imposta: il pupazzo deve meravigliare tecnicamente e insegnare all’uomo che nonostante tutto si può sognare. Altro non deve, non dev’essere per sé, che altrimenti, giocando, diverrebbe pietra di paragone della realtà umana; e un tal rovesciamento dell’ideologia svelerebbe la costrizione dell’uomo, come i congegni delle statue mobili, una volta scoperti, insegnarono nell’antichità a veder vuoto il cielo. Ora c’è da dire che, se i pupazzi son veri quando non sono perbenisticamente funzionalizzati, certo l’ideologia sublimatrice è arrivata a inquinare, a volte, lo stesso lavoro degli animatori; ciò è avvenuto quando gli spettacoli hanno chiesto agli spettatori di dimenticarsi, di rimuovere la loro concreta esistenza. Per questo Miguel de Unamuno, scrivendo dello scempio di marionette fatto da Don Chisciotte durante una rappresentazione cavalleresca, diede ragione all’hidalgo. Mastro Pietro, il marionettista, gli aveva detto che i suoi eroi di cartapesta avrebbero rappresentato la verità; Chisciotte si sarebbe dunque disonorato se non avesse soccorso Melisenda con la spada in pugno. E giustamente poi non aveva arrestato i suoi fendenti, quando mastro Pietro, atterrito, gli aveva gridato che il teatro è finzione, che l’onore a teatro è dannoso. Unamuno vedeva in mastro Pietro un teatrante da buttar giù dall’ arca: quel teatro non vero sarebbe dovuto scomparire per salvare la teatralità.

Ma d’altro canto, anche lui, il marionettista aveva le sue buone ragioni: per l’animatore ogni marionetta è vera, custodisce una sua verità prima dello spettacolo; è lo statuto della rappresentazione a renderla finta, la moderna letteratura sulle marionette non aveva aiutato di un’acca, mai, i poveri marionettisti: raccontando storie attraverso il filtro dei pupazzi, Kleist, Hoffmann e gli altrinon avevano fatto altro che rubare la suggestione agli animatori, senza minimamente soccorrerli nei loro problemi di pane e di verità; e lo stesso era stato per gli intellettuali del tipo di Shlemmer. Dunque, quel maestro Pietro moderno avrebbe potuto incalzare il suo interlocutore con una domanda: quali poeti e intellettuali del teatro si sono messi dal punto di vista dei marionettisti? Un tempo Shakespeare e gli antenati umani di Punch, Vizio e Clown, erano una cosa sola (lo ha raccontato bene Speaight nei suoi scritti: The history of the English puppet theatre, London 1955; e Punchand Judy: a history, London1970). Venne poi Pulcinella, il padre del burattino inglese, e l’attenzione che la cultura gli dedicò non fu certo ideologica o di rapina, al contrario, allora, il pupazzo fiancheggiava il poeta (e viceversa), non esistendo differenze tra “teatro umano” e teatro animato. Semplicemente, si poneva una questione: con quale legittimità quell’attore e quel pupazzo fanno spettacolo per il pubblico? Oggi non è così, oggi l’attore è attore per principio, mentre l’animatore è uno che deve arrangiarsi, quando non ci sono degli intellettuali che lo invitano ai loro convegni o dei partiti che lo pagano per avere gente alle loro feste. E se quel maestro Pietro fosse stato Nunzio Zambello, avrebbe concluso: « Per il medico centomila lire si pagano»,per noi è diverso: «bisogna prolungare lo spettacolo per guadagnare» ( «Scena», sett. 1977). Zambello avrebbe senz’altro trovato posto nell’arca di Baty e Chavance, magari per esercitare la sorveglianza sugli attori-medici salvati dal diluvio. Zambello e Baty-Chavance ci propongono infatti un unico discorso, che per comodità potremo riassumere in due punti: -Non esiste un teatro di animazione separato dal “teatro normale”; non a caso burattinai e marionettisti amano la storia dei loro pupazzi, mentre sono indifferenti alla storia generale in cui per astrazione dovrebbero collocarsi. Ogni abilità umana ha certo una sua storia: le arti dei fili e dei bastoni, delle ombre e delle teste bucate, delle maschere e degli “uomini in nero” devono essere comprese da vari punti di vista, valorizzando sempre ogni spessore storico e di tradizione che le riguardi; quando però il rapporto scena-pubblico e l’esercizio professionale di quelle arti inducono a una categorizzazione unitaria e autonoma dall’interno dell’universo teatrale, allora, automaticamente, dietro al titolo “teatro di animazione”, scatta la molla del pernicioso pregiudizio: ideologia, gerarchia e ghettizzazione sono pronti a divorare la ricchezza del pupazzo, con la stessa furia con cui i teatranti televisivi e burocratici han tolto il pubblico ai marionettisti. – Recenti approcci tecnologici ed etnologici hanno creato feconde isole di conoscenza dei pupazzi (aderendo, fra l’altro, al carattere localizzato e intermittente dei loro cicli vitali). Ma le marionette sono anche e sempre più teatro. Da questo punto di vista, l’interesse per i pupazzi richiede una rifondazione intransigente attorno a un nucleo essenziale: l’accoglienza del pubblico, del pubblico vero, non quello col cappello. L’attuale rimessa in discussione degli statuti borghesi del teatro sta creando un terreno favorevole al proposito; esperienze come quella del “Bread and Puppet“ hanno rivelato che i pupazzi non solo possono smentire le inique gerarchie di un tempo, ma possono contribuire a svilire l’arroganza del “teatro normale” a favore di una cultura teatrale senza dominanti ; dove sia appunto il pubblico – e non altri – a nominare il suo interlocutore. In tale prospettiva la marionetta diventa incomprensibile senza il marionettista e la questione dell’animatore, colto o popolare che sia, arriva a identificarsi con quella dell’attore; solo se ripensata nella multiforme esperienza storica dell’attore, l’animazione, come teatro, potrà trovare un adeguato riconoscimento della sua storicità illegale.

Il caso di Obrazcov. Dobbiamo a Maria Signorelli la conoscenza del Mestiere del Burattinaio di Sergej Obrazcov (Bari 1956), un libro centrale per il nostro discorso. Obrazcov infatti svolse a suo tempo una critica sistematica della presunta autonomia culturale dei pupazzi: «di fronte alle rappresentazioni di altri teatri di marionette spesso assumo un atteggiamento negativo, un’opposizione interna direi. Credo che ciò non sia segno di cattiva volontà e neppure [di] gelosia; si tratta spesso della mia inevitabile differenza di fini di gusto [… Cercando le frontiere del possibile…], mi sono arricchito invece, più spesso e in misura assai maggiore, dal contatto di altre specie di teatro ». I celebri burattini di Obrazcov nacquero, non a caso, dall’interno della più forte cultura scenica espressa dal nostro secolo, la cultura stanislavskiana.

Nel dicembre del 1918 Stanislavskij fu chiamato dallo Studio operistico del Bolsoj teatr per riformare la recitazione degli interpreti lirici. La mia vita nell’arte ricorda quel periodo soprattutto per le difficoltà di realizzare una effettiva fusione delle “tre arti “ proprie al cantante, «cioè la vocale, la musicale, la scenica». La ricerca ottenne dei primi risultati, ma Stanislavskij, chiamato all’estero per una tournée di due anni, non ebbe modo di seguirne il decorso. Dal canto suo, Nemirovic-Dancenko, che proseguì il lavoro del maestro allestendo degli spettacoli in collaborazione con lo studio musicale, non riuscì a evitare una certa diffusione degenerata degli insegnamenti stanislavskiani; sicché il mondo artistico moscovita venne ad essere affetto da una nuova malattia: l’ “isterismo” delle autoanalisi canore. Proprio allora, nei primi Anni Venti, Obrazcov entrava in arte come cantante, rimanendo letteralmente sconvolto da quel clima ebbro di novità e di mistificazioni, di profondità e di superficiale esibizionismo. Come coniugare le tre arti del cantare e dell’attore, separando il grano dalla pula? Obrazcov attraversò anni di frustrazioni, di avvilimento, cercando evasioni nel gioco e nella fantasia. Non era nelle sue corde una scelta di campo per l’arte dell’Ottobre e tuttavia, da autodidatta, prese a studiare tutto ciò che gli sembrava contrastasse il nuovo conformismo: la recitazione meccanica adottata da Vachtangov nella Turandot, il rapporto fra recitazione burattinesca e “recitazione umana”, i numeri eclettici esibiti nei salotti à la page , la tradizione popolare di Pétruska. Per Obrazcov fu come una guerra privata contro l’accademismo e lo stanislavskismo, una guerra vissuta drammaticamente, quasi contenesse il senso stesso del vivere. Finché l’arte burattinesca, che il nostro aveva esercitato a lungo da dilettante, gli rivelò una sicura via di “spettacolo totale”. In sostanza, per il tramite dei burattini, Obrazcov realizzò una sua piccola secessione dallo stanislavskismo, un’ “eresia” sintetizzabile nella formula: “il lavoro interiore ed esteriore sulla parte” deve precedere e non seguire il lavoro interiore ed esteriore dell’artista su se stesso”. Era, come si vede, una via pericolosa che rischiava di riportare la prima rivoluzione teatrale russa nei binari di una mera pratica interpretativa; ma Obrazcov, che odiava anzitutto il vecchio mestiere, la percorse da razionalista, cercando dei risultati di sperimentazione assoluta. Per questo il conflitto con lo stanislavskismo arrivò ad essere da lui sentito in termini gnoseologici. A suo giudizio, non si poteva non ritenere ambigua la teoria del risveglio della “ natura creativa inconscia”; infatti, come si sarebbe potuto dominare l’inconoscibile? Quella teoria, secondo Obrazcov; andava rovesciata: stante la l’inconoscibilità dell’essere e perciò del processo creativo, all’artista non restava che realizzare un freddo lavoro d’ ingegneria scenica sui frammenti casualmente emersi dall’inconscio: tali erano per il nostro i burattini o le “immagini” sfuggite alla fissità della parte. Quei frammenti erano conoscibili in sé, dunque erano dominabili e come tali potevano far da esca per l’emozione vivente (dell’artista e del pubblico). Se Obrazcov si fosse intestardito sulla questione, forse sarebbe arrivato a rinventare la teoria del “motto di spirito”, ma la sua vocazione era quella del burattinaio e poco gli interessava che i suoi burattini fossero parenti dei sintomi.

 

Dicevamo di un Obrazcov burattinaio, ma chiunque abbia letto il suo libro di memorie avrà notato in lui anche una curiosa tempra di razionalista classico: Obrazcov concepiva il burattino come “un tutto”, dotato di una sua “natura”, perfettamente risolto nelle sue “azioni” ( «volevo conservare nel numero solo i verbi cioè l’azione»), vivo in quanto capace di relazioni (condizionate da oggetti reali o incondizionate), così vero in se stesso da rifiutare la voce umana.

Di Descartes Macchia ha detto che descrisse una città pensata «da un solo cervello» e fatta «con una sola mano», una città però che per essere edificata aveva richiesto al costruttore fin la demolizione della sua casa. Il “discorso” scenico del burattinaio Obrazcov, già pittore, già cantante, già attore, gelosamente solo dietro al suo paravento-laboratorio, merita questo paragone: non so se Obrazcov conoscesse Descartes, ma sono certo che, leggendo dei dubbi cartesiani sulla verità del corpo e soprattutto sulla sincerità della memoria, il nostro vi avrebbe riconosciuto i motivi della sua polemica antistanislavkista. Non solo: Obrazcov era un “costruttore” alla maniera dei razionalisti, anche se la città da lui raccontata non offrì al visitatore le «belle e ampie prospettive» figurate dalla speculazione cartesiana; altri erano i tempi, altro era il “buon senso” che la verità sociale richiedeva. Ripensate a distanza, nella tempesta sovietica, le costruzioni di Obrazcov ci appaiono armoniose quanto inabili, meschine. Eppure, quale perfezione custodivano, e quale incanto! Descartes sapeva catturare le serenità dei suoi interlocutori, fino alla pura esistenza della sostanza pesante; Obrazcov tentava gli stessi risultati da teatrante, ad esempio, cullando un suo avambraccio come fosse un neonato: le ultime note della Ninna nanna di Mussorgkij, che egli cantava a vista come un papà premuroso, lasciavano la sala col fiato sospeso, devota al primo sonno di una mano.

Numeri di Obrazcov erano massime, favole e “proverbi” della durata di tre-quattro minuti, che il burattinaio proponeva come insiemi di segni perfettamente proporzionati; quelle minuscole “esistenze” erano dedotte, comunque e ogni volta, dalla fisicità dei burattini, mai dall’esperienza di vita. Tale fisicità (forma), se esaurientemente indagata, consentiva a Obrazcov un “graduale” sviluppo dei mezzi espressivi, cioè del ritmo, del carattere del “tema interiore” (soggetto), eccetera. Il ritmo del burattino (non la sua testa o la sua veste) era da considerare il fattore “realistico” della rappresentazione; il ritmo custodiva infatti “l’essenza emotiva del movimento umano”. Qualsiasi oggetto, tramite il ritmo, poteva comunicare(« più il ritmo del burattino si scosta dal mio, e in modo più convincente e reale si snoda il suo contegno, più vivamente lo afferra lo spettatore»). E da questa ambivalente dimensione nascevano gli spettacoli di Obrazcov, sfiorando la realtà fenomenica, o meglio creando allusivamente un nuovo tempo e un nuovo spazio: quale “gioia procura” il “particolare sentimento di essere un favolista”! I temi degli spettacoli nascevano solo a questo punto, ed era nelle cose che fossero temi a due dimensioni. Ironici (dove la connaturata serietà del burattino “recitava” la retorica o la prosa, il vizio sociale o il tic di un cantante convenzionale) oppure “problematicamente tragici” ( dove la stessa serietà impediva l’immedesimazione in situazioni di sofferenza). I temi dei racconti erano dunque casualmente rivelati dai “temi interiori”: «fra il tema e il tempo corre la severa legge delle proporzioni».

Alcune delle affermazioni or ora riferite corrispondono a dei principi generali, condivisi da tutti i burattinai, ma Obrazcov intenzionalmente si rifiutò di ricavarne un metodo e tantomeno una teoria dell’animazione. Tenne anzi a ribadire. «La ripetizione di ciò che altri ha elaborato non basta. Perciò è indispensabile scoprire da soli molto di nuovo, come se non fosse mai stato conosciuto». Di metodi bastava quello di Stanivslaskij, un metodo buono per gli attori come per i cantanti e i burattinai; la cui grandezza era comprovata dal fatto che le eresie che suscitava sembravano rinvigorirlo. Il tempo ricondusse anche Obrazcov da Stanislavskij, almeno in parte: Il mestiere del burattinaio fu scritto alla fine degli Anni Quaranta come da allievo invecchiato, che ha dimenticato i nessi del sapere scolastico, ma che conserva bene impressi alcuni insegnamenti: sull’immoralità dell’esibizionismo, sulla devozione dovuta al pubblico, sulla recitazione interiorizzata, sull’importanza dl “seme” e delle azioni nella parte.

Il ritorno a Stanislavskij suggerì a Obrazcov anche il tema di un numero: quello del relatore raffigurato, per associazione di immagini, come un ubriaco. Non si trattò tuttavia, come dicevamo, di un ripensamento.Obrazcov era ormai giunto al successo, un successo non commisurato alle sue forze: il suo paravento-laboratorio era diventato un teatro d’occasione, retto da ordinamenti burocratici. C’è da pensare che , in quell’ambiente, il suo razionalismo rischiasse la fagocitazione nella logica formale, nello sperimentalismo meccanico, settecentesco; e che per questo obrazcov, ormai promosso direttore di burattinai e incapace di costruire città con una mano, tornasse ai dubbi del suo vecchio maestro. Anche allora, però da borghese classico qual’era, non fu preso dal metodo del defunto “cercatore d’oro”.

 

Un altro caso: come nacque l’opera dei pupi. Spostiamo ora il discorso su un versante popolare, su uno dei più intricati misteri dell’animazione, la nascita dell’”opera” in Sicilia.

Il 15 giugno 1841 sulla «Fata galante» (un periodico palermitano) furono contrapposte due recensioni pseudo-teatrali; la prima segnalava con simpatia un Gabinetto di figure e ritratti alla piazza Marina, una specie di mostra didattica in forma di “rappresentazione”; l’altra relativa ad uno spettacolo vero e proprio, Burattini a Toledo, intendeva stroncare sul nascere un genere nuovo, indegno dei teatri: «Non sarebbe a parlare di questo volgare passatempo, se non fosse annunziato anche col suo manifesto in istampa e se il nome del famoso Meschino non attirasse l’attenzione del pubblico».

Si trattò di una stroncatura importante. Per quanto mi risulta, non esistono precedenti testimonianze oggettive sulla regolarizzazione dell’opera dei pupi: «Non si dolga il guerriero errante di vedersi un naso di legno e di essere obbligato con le braccia e co’ piedi a seguire l’impulso de’ fili che ne comandano i movimenti. Altri eroi che non fu egli patirono e patiscono tutto giorno lo stesso destino […]Il nostro meschino per altro se da una parte tiene il piede nel fango, dall’altra occupa un bel posto nella più importante speculazione della moderna civiltà. L’antica storia che ne racconta le gesta pompeggia anch’essa di sfarzo litografico! Tace dunque il [ Teatro] Carolino e brulica la città di Spettacoli. Dorme il gatto e ballano i topi». Il tono della recensione impedisce le certezze , ma è ipotizzabile che quei pupi fossero armati, altrimenti il cronista avrebbe anche ironizzato sulle vesti dell’eroe dal “naso di legno”; ma da dove veniva, chi era il “topo” creatore di quel Meschino?

Dunque, l’”opra” già esisteva e andava regolarizzandosi in forme estranee all’ufficialità dello spettacolo. Ciò rappresenta per noi una conferma più che una novità, e tuttavia, se approfondito da questo punto di vista, il documento del ’41 potrà fornire qualche nuovo indizio circa l’origine del teatro paladinesco. Intanto, senza nulla togliere alla straordinaria tradizione dei Greco e dei Canino, la parziale sorpresa del recensore di fronte al manifesto del Meschino potrebbe smentire quanti hanno collocato la nascita del nuovo genere nella Palermo degli Anni Venti. Secondariamente e soprattutto, il modo in cui il nostro spettacolo fu proposto al pubblico non fu diverso da quello, proprio degli attori, dei recitanti, in forme varie; perché allora non riaffrontare il mistero originale dell’”opra” partendo dai meriti dei comici vaganti? «Un giorno capitò in Licata la compagnia di certo don Gaetano il quale lavorava coi pupi, ma faceva anche la farsa coi personaggi e cioè con la moglie, la figlia e i due figli; ed era ritenuto il miglior Ferlazzano dei firrianti dell’isola […]. Quando la compagnia di don Gaetano lasciò Licata condusse seco il piccolo Gaetano Crimi già entrato nelle buone grazie del vecchio capocomico». Secondo un ingiallito articolo del « Corriere di Sicilia » (23 agosto1923), fu grazie a questa adozione artistica che Gaetano Crimi, negli Anni Trenta, poté inventare l’opera dei pupi nella zona catanese, inscenando i “poemi” narratigli da don Gaetano. Quella del « Corriere di Sicilia » fu una ricostruzione da novella, non priva però di qualche verità: non si può dubitare del fatto che lo sviluppo delle farse, la messa al bando della “Foire” palermitana e i primi “divieti” ottocenteschi sugli spettacoli popolari avessero disperso per le strade dell’isola parecchi eredi del comico Ferrasani; né è inverosimile che, fra questi, ve ne fossero di particolarmente fantasiosi, non foss’altro per l’antico adagio del bisogno che aguzza l’ingegno. E converrà notare, al proposito, la ricorrenza di un topico tema, quello del declassamento; come i grandi attori siciliani del periodo Colombo e Riolo, anche i leggendari inventori dell’”opra” furono dei declassati: Gaetano Greco era figlio di un “possidente”; Gaetano Crimi, di un maestro di cappella.

Nonostante alcune fondamentali acquisizioni realizzate in anni recentissimi( da Buttitta, Alberti e altri), gli studi sull’origine dell’”opra” hanno sottovalutato finora questa dimensione attorica; come non hanno conferito ilo dovuto rilievo, d’altro canto, alla lunga familiarità dei siciliani con gli spettacoli guerreschi (familiarità che è stata correttamente indagata finora dal solo Antonio Pasqualino). Ambedue queste sottovalutazioni mi pare derivino dal pregiudizio per cui l’”opra” sarebbe potuta nascere come un teatro a parte, senza debiti verso l’arte teatrale precedente e contemporanea; un pregiudizio ricorrente in quasi tutti gli studi dedicati al teatro di animazione. Ma come non vedere nella versatilità e nel bisogno di sopravvivenza di quegli attori siciliani una vocazione ad inventare, a riciclare il già visto secondo il gusto di un pubblico “primitivo”? E, a proposito di questo gusto, come non guardare a monte dell’iconografia dei carretti, degli ex voto e delle stampe cavalleresche, per ritrovare la cultura guerresca della festa, codificata nei giochi d’arme, nei coreografici assalti, nei martìri dei santi, nelle demonizzazioni dell’Islam (una cultura che aveva alle spalle, a sua volta, l’ideologia indipendentista e la cerimonialità devota, il melodramma eroico e il teatro gesuitico)?

 

Detto questo – è chiaro – si è detto ben poco, ma nell’oscurità contano i punti di orientamento, anche se lontani come le stelle. Nel mistero della nascita dell’”opra” esiste un dato certo: i pupi trovarono udienza in Sicilia nel periodo della regolamentazione della vita teatrale, quando gli spettacoli isolani, gli spettacoli di condizione, naturalmente, si uniformarono definitivamente alle abitudini del continente. Questa considerazione ci consentirà di guardare al teatro dei paladini in modo straniato, vedendovi una mancanza del “teatro maggiore”, ovvero la resistenza di un immaginario destinato a scomparire; tal che dalla difesa di un’identità di tradizione finì per scaturire paradossalmente una cultura scenica assolutamente nuova e, come tale, destinata a durare. Una considerazione di verifica: l’”opra” per tanti segni allude alle profondità della nazione siciliana, ma l’ideologia, ma l’ideologia tradizionalista non vi è visibile che per alcune stimmate. La nostra emozione di spettatori non sarebbe tanto forte se il teatro dei paladini si limitasse a dar voce e figura a una tradizione preborghese; nella fantasia di quel teatro c’è invece qualcosa che ci riguarda da vicino e che non saprei definire se non con la categoria brechtiana del “gesto storico”: il senso di una frattura storica appunto e il particolarissimo rifiuto del convenzionalismo trionfante; per questo gli inopinati rigurgiti di cose antiche che offrono quei teatrini colorati ci appaiono ancora oggi nuovi e “veri”. Sintetizzando quanto detto finora, potremmo dunque affermare che le condizioni genetiche dell’opera dei pupi si determinarono in Sicilia quando le classi dominanti locali abbandonarono le forme spettacolari della tradizione, privandole di un effettivo valore cerimoniale, e quando un insieme anonimo di attori declassati, di artigiani e di inurbati cominciò a giocare con quei simulacri nuovi, ormai incustoditi; di qui il tono blasfemo e infantile che nell’”opra” si unisce sempre ai tratti eroici, tratti che a loro volta seppero emanciparsi dall’aura delle parate feudali: le feste patronali e civili erano state sì tripudi di regime, ma erano state anche il frutto di una ininterrotta e creativa partecipazione di massa; i tratti eroici del nuovo genere presero forma come riscatto popolare di un processo antico. Tale è il valore autentico dell’eroismo paladinesco che ancora ci coinvolge.

Dal canto loro gli orientamenti della borghesia siciliana non furono determinanti per il destino dell’”opra”, perché proprio in quegli anni andava configurandosi nell’isola il teatro delle classi intermedie, nazionale e locale a un tempo, il teatro del dramma verista. Gli intellettuali siciliani non poterono che provare ostilità o indifferenza per il teatro dei paladini, nel mentre si applicavano alla sperimentazione di un loro proprio sentire scenico, dall’interno dell’istituzione teatrale. Per questo l’”opra” poté crescere come un genere senza restrizioni di verosimiglianza, condizionato produttivamente dal solo suo mercato; creatura di un popolo lungamente colonizzato, essa catalizzò i più dispersi e incongrui elementi rappresentativi, in parte indigeni in parte stranieri, in parte subalterni e in parte di dominio, fino a raggiungere una dimensione mitica, di rincarnazione altra del già visto, grazie anche alla fedeltà di un pubblico capace di partecipare al limite della trance.

 

Inquadrato il nostro oggetto come il mitico spettacolo di un popolo lungamente colonizzato, potremo tornare a valutare con equilibrio le diverse tesi sulle sue origini: aver analizzato certe condizioni genetiche non significa aver risposto ai molti interrogativi che solleva l’evento di un teatro, in particolare di un teatro diverso come il nostro. Innanzitutto: perché il nuovo genere adottò come suoi personaggi i paladini di Carlo Magno? Il mistero a proposito resta e resterà: altre tradizioni cavalleresche più ragionevolmente avrebbero potuto essere personalizzate dall’”opra”, se questa fosse scaturita direttamente dai “valori” dell’indipendentismo isolano; evidentemente i paladini furono amati e acquisiti non per la loro identità storica di conti palatini, ma per la loro essenza di idoli naturalizzabili nell’isola; la scelta di quei pupazzi dipese perciò verosimilmente da un affascinato riconoscimento, anziché da un processo creativo.

Andrebbe dunque riconsiderata la tesi sull’importazione del modello paladinesco: allo stato delle nostre conoscenze, è certo ipotizzabile che un insieme di tecniche e di simboli spettacolari importati dalla Spagna (per tramite di manovratori napoletani?) facesse da solvente per la fusione di elementi rappresentativi tipicamente siciliani; le tecniche, nella storia dello spettacolo, hanno svolto funzioni maieutiche in un’infinità di casi anche se in quanto agenti esterni, raramente hanno qualificato la precipitazione di nuovi fenomeni spettacolari. Nel nostro caso, val la pena di ripeterlo, l’impulso venne verosimilmente dai colonizzatori, ma la sostanza, la creazione mitico-rigenerativa, venne dai colonizzati. Perciò potremo pensare gli “anni oscuri” del primo Ottocento siciliano come il tempo necessario dell’acquisizione e della rigenerazione.

Se questo è vero – ma non è detto che lo sia – la tesi che ha fatto nascere i pupi dal puro fermento popolare andrà sfrondata dai suoi elementi romantici. In epoca moderna ogni teatro è nato da un altro teatro; ci sembra dunque inesatto indicare nella pittura popolare e nel “cunto” (due arti rappresentative non teatrali) le forme formanti del nuovo genere. D’altro canto confutare la tesi autogenetica dell’”opra” non significa voler ridimensionare la ricchezza della creatività subalterna che fiorì in Siciliabnei primi decenni dell’Ottocento; una creatività capace di esprimere epici racconti e varie forme di animazione, canti, balli e ogni sorta di “figure” , una creatività diffusa quanto mutevole, che fu pagata in denaro come in natura. Di questi Sali si sostanziò indubbiamente anche l0opera dei pupi. Ma se dal Pitrè e dal Li Gotti abbiamo imparato ad amare quel mondo guardandolo panoramicamente, prudenza critica vuole che oggi ogni sua singola manifestazione venga ripensata per se stessa. Da questo punto di vista “cunto” e “opra” andranno analizzati come due generi distinti comunicanti. Le date al proposito parlano di fenomeni contemporanei, o quasi. Fu il 30 gennaio del 1837, infatti, che Vincenzo Linares comunicò ai lettori del «Vapore» la sua ammirazione per Maestro Pasquale, il primo contastorie siciliano che assurse a “chiara fama”. Linares paragonò mastro Pasquale a walter Scott, ma avrebbe fatto meglio a presentarlo come un contemporaneo dell’”opra”, un’”opra”, per così dire, alle sue prime armi.

 

Il “cunto” aveva lontane origini in Sicilia, ma il suo successo ottocentesco equivalse a una rinascita; lo stesso avvenne per l’arte delle marionette. In una cronaca dell’«Avanti!» (29 maggio 1918) Gramsci avrebbe poi scritto : « La Sicilia conserva una sua indipendenza spirituale e questa si rivela più spontanea e forte che mai a teatro». Fu l’iniziale ricomposizione soggettiva delle classi , determinatasi in Sicilia verso la metà del secolo scorso, a porre in una luce improvvisa e sorprendente quell’indipendenza, a rivelarla teatralmente, con l’impulsività di una vita interiore capace di erompere selvaggiamente e plasticamente insieme. E fu grazie a quel sentire collettivo che il contastorie e l’oprante arrivarono a preconizzare alcune delle« più avanzate tendenze drammatiche di oggi » (Luciano Codignola).

Ciò spiega perché, leggendo dell’”opra” nei manuali di animazione, si rimane delusi, come per un arbitrario impoverimento del suo “miracolo” ovvero della sua complessità scenico-sociale. Ed è, non a caso, la stessa impressione che si ricava dai saggi sugli attori senza commozione.

 

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